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domenica 22 maggio 2011
Lgbt: "17 maggio" diritti in transizione
Il 17 Maggio del 1990 l'OMS
(Organizzazione mondiale della Sanità) abolì l’omosessualità dalla lista delle malattie psichiatriche.
Da allora quella data è riconosciuta a livello istituzionale come la giornata internazionale contro l’omofobia.
Indubbiamente essa merita apprezzamento critico e difesa, soprattutto in Italia, paese oscurantista e poco sensibile ad offrire tutela legislativa ed economica alle fasce più deboli ed emarginate del sistema, mai come in quest’attuale fase storica e sociale.
Tuttavia ufficializzare formalmente il 17 Maggio come momento di riflessione, solidarietà e critica contro le discriminazioni sessuali non può bastare, se non accompagnato dall’avvio di politiche concrete atte a realizzare una sostanziale eguaglianza tra gli individui.
Prima di proseguire il nostro articolo e di addentrarci nella sfera dei diritti civili e delle differenze di genere è opportuno tenere a mente la distinzione fra i seguenti concetti: il “sesso” è inteso come componente biologica, dunque fisica dell’individuo; il “genere” invece non è altro che il ruolo sociale connotato dalla discrepanza o perfetta corrispondenza tra sesso fisico e sesso psicologico del soggetto; infine “l’orientamento sessuale” è dettato dall’orientamento per la scelta del sesso del partner, per l’attività sessuale o le relazioni affettive e fisiche.
L’acronimo LGBT raggruppa tutte quelle persone, lesbiche, gay, bisex e transessuali, cui spesso sono associate forme di discriminazione sociale, in virtù della loro natura sessuale che ancora troppo spesso è concepita peccaminosa e volgare, non funzionale alla riproduzione ( centrale nel pensiero cattolico e cristiano) e all’evoluzione della specie umana.
Le discriminazioni che spesso si traducono in meccanismi di isolamento e segregazione dei soggetti omosessuali è principalmente da imputare ad un quadro normativo quasi assente in Italia, nonostante a livello europeo vi siano numerose disposizioni, atte a garantire una sostanziale uguaglianza sociale e protezione.
La legislazione europea in materia si basa sull’articolo 19 del trattato di Lisbona (già articolo 13 del trattato di Amsterdam) che conferisce all’UE competenze utili a combattere la discriminazione per motivi di genere, origine razziale o etnica, religione o credo, handicap, età od orientamento sessuale.
L’attuale normativa comprende due direttive:
1)La direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione (2000/78/CE) tutela tutti i cittadini comunitari dalle discriminazioni per motivi di età, handicap, orientamento sessuale, religione o credo sul luogo di lavoro.
2)La direttiva sull’uguaglianza razziale (2000/43/CE) vieta la discriminazione basata sulla razza o sull’origine etnica sul luogo di lavoro e in altri ambiti della vita quali l’istruzione, la sicurezza sociale, la sanità e l’accesso a beni e servizi.
Le direttive sono state adottate nel 2000 da tutti gli Stati membri dell’UE, che hanno quindi dovuto integrare queste nuove norme nei rispettivi sistemi nazionali.
Nonostante a livello Europeo siano tracciati i princìpi guida per una sostanziale uguaglianza e protezione della componente LGBT, in Italia il tema appare piuttosto spinoso e controverso.
L’articolo 3 della Costituzione afferma che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Il principio contenuto nell’articolo 3, relativo alla pari dignità sociale dell’individuo senza alcuna distinzione, anche sessuale, merita indubbiamente apprezzamento critico e difesa, ma non è sufficiente per garantire una sostanziale parità sociale. Inoltre la rimozione degli ostacoli che frenano lo sviluppo della personalità necessita di ulteriori strumenti giuridici che ne garantiscano l’efficacia.
Da anni in Italia, si è aperta la questione delle coppie di fatto, che spesso vengono associate alle coppie gay, ma in realtà esse fanno riferimento a qualsiasi coppia di individui, uniti dal vincolo affettivo, economico e solidaristico.
Quello del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, finalizzato a tutelarne i diritti e stabilirne i doveri , con una forma contrattuale differente dal matrimonio e definita unione civile è un tema controverso, che ha visto schierarsi l’opinione pubblica italiana in due fronti nettamente contrapposti.
L’opposizione alle unioni civili pone principalmente due motivazioni:
Le unioni tra eterosessuali sono considerate una forma di matrimonio “di serie B”, nel quale si crede che la parte debole della coppia e gli eventuali figli siano meno tutelati.
Per quanto riguarda invece le unioni tra individui classificati LGBT, una delle critiche più diffuse è che il loro riconoscimento giuridico negherebbe l’unicità del modello di famiglia costituzionale, da intendersi come «società naturale fondata sul matrimonio» (art. 29, Cost.).
Su questo punto è lampante il ruolo di precise istituzioni presenti sul nostro territorio, come la Chiesa, che nel corso degli anni ha spostato l’asse delle sue pratiche e strategie, non più solo all’interno della sfera confessionale dei suoi fedeli, ma anche al di fuori, invadendo la politica e gli interventi pubblici di interesse collettivo, creando un humus culturale dalla chiara matrice conservatrice. (Si pensi ad es. alle continue polemiche alla Ru486, al diritto di aborto, alla fecondazione assistita).
Per quanto riguarda le unioni omosessuali, l’espressione utilizzata nell’articolo 29 della nostra costituzione, “società naturale fondata sul matrimonio”, rinvia l’idea ad un’altra parte di società, quella non basata sul contratto matrimoniale, che appare dunque non naturale e predisposta ad essere discriminata, emarginata e non tutelata economicamente dal sistema.
La costruzione della famiglia definita come modello ideale, dunque imperniata sul matrimonio fra persone di sesso diverso ed orientata alla riproduzione, trae alimento da tradizioni culturali legate alla storia, e non certo da un’inafferrabile idea di natura; essa necessita quindi di essere argomentata sul piano di princìpi conservatori che sottendono i meccanismi di un discorso egemonico e classista.
Gli argomenti oggi proposti per sostenere il valore delle tradizioni culturali (l’unità del nucleo familiare, la perpetuazione della specie, il benessere dei minori, il vantaggio della collettività, ed altri simili ), celano spesso la traduzione normativa di una determinata morale, in particolare di un preciso disegno politico, rafforzando sempre più situazioni di esclusione sociale e di limitazione delle prerogative individuali.
Quindi il terreno dei diritti civili appare permeato, almeno in Italia, di quella retorica, definita da Antonio Gramsci, “senso comune”!!!! Di ciò sono anche responsabili i partiti della Sinistra cosiddetta “radicale”, che durante il governo Prodi del 2006, sono stati capaci di non attuare alcun punto del programma, compresi i diritti civili e le unioni di fatto.
Fin qui abbiamo posto l’accento sui diversi orientamenti sessuali e sulle copie non unite dal vincolo matrimoniale.
La mia attenzione vuole anche abbracciare le differenze di genere. Esse fanno riferimento al “ruolo sociale del soggetto”, dunque alla sua percezione individuale, che spesso si traduce in un vero e proprio disagio intrapsichico, allorquando si sviluppa una sorta di discrepanza tra sesso psicologico e sesso fisico. Dunque tra mente e corpo.
Questo è il caso dei soggetti trans, in “transito”, impegnati in percorsi di cambiamento ardui ed emotivamente e fisicamente stressanti. Questa tematica, si basa su un assunto fondamentale: il corpo appare un dato socialmente costruito, mix di natura e cultura, distinguendo quindi tra la mera fisicità – dato universale e naturale cui si possono legittimamente occupare le scienze mediche e biologiche – ed un livello più alto dell’essere – quello socializzato, riempito di valori, morale e percezioni soggettive generate dal continuo confronto con l’universo sociale.
Il corpo è anche strumento e misura del soggetto: di esso ci serviamo per presentarci agli altri, su di esso lavoriamo per costruirci una certa identità ed esso parla di noi stessi agli altri. In altri termini il corpo ci classifica, mentre agendo con e sul nostro corpo noi cerchiamo di trovare il nostro posto nelle classificazioni sociali.
Questa scorta di osservazioni circa l’importanza della fisicità, assume un valore ancor più profondo per i soggetti affetti da transessualismo primario.
Il termine “transessualismo” fu coniato dal dott. H. Benjamin, sessuologo e gerontologo, nel 1953. Inizialmente il fenomeno fu affrontato in ambito medico-psichiatrico e classificato come un ulteriore patologia: un disturbo della normalità sessuale.
In tempi più recenti, grazie ad adeguati trattamenti ormonali, appropriate psicoterapie e soddisfacenti interventi chirurgici, è possibile un efficiente, duraturo e convincente passaggio da un sesso all’altro ed il “fenomeno” ha trovato una sua dignità, una sua collocazione sociale e una sua legittimazione anche fuori dell’ambiente clinico.
Nonostante ciò, la situazione esistenziale dei transessuali è ancora difficile per i pregiudizi sociali, tra cui una profonda emarginazione dal mondo del lavoro.
Ciò in parte è da ricondurre al fatto che mentre l’omosessualità fu abolita dalla lista delle malattie mentali dall’OMS (organizzazione mondiale della sanità) appunto il 17 maggio 1990, il transessualismo invece è ancora ritenuto un grave disturbo intrapsichico.
La normativa vigente in materia di transizione sessuale fa riferimento alla legge 164 del 14 aprile 1982, che in passato ha sicuramente rappresentato una conquista, ma ormai appare una zavorra giuridica da snellire e aggiornare.
La legge subordina la volontà individuale del transessuale alla presenza di un giudizio di idoneità di un “esperto”. Ovvero lo psicologo, sulla base di una psico-terapia di almeno 6 mesi, redige un referto e in virtù di questo il giudice del tribunale delibera sul possibile cambiamento di genere, con i conseguenti dati anagrafici.
I transessuali e le transessuali talvolta non giudicano indispensabile il ricorso ad un intervento chirurgico di riattribuzione del sesso e anche in questi casi necessitano di uno status giuridicamente riconosciuto, status che con la legge 164 viene subordinato esclusivamente ad una effettiva trasformazione chirurgica irreversibile. (continua...)
Scritto da Chiara Ruggieri
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fonte siderlandia.it, Scritto da Chiara Ruggieri
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