Nell'ultimo periodo della sua vita, Judy Garland
è ancora un nome che suscita ammirazione e il ricordo di un'età
dell'oro del cinema americano, ma è anche sola, divorziata quattro
volte, senza più la voce di una volta, senza un soldo e senza un
contratto, perché ritenuta inaffidabile e dunque non assicurabile. Per
amore dei figli più piccoli, è costretta ad accettare una tournée canora
a Londra, ma il ritorno sul palco risveglia anche i fantasmi che la
perseguitano da sempre.
Il Mago di Oz
fu il capolavoro dell'era degli Studios, un film in un certo senso
senza regista (ne ebbe quattro), in cui ogni reparto lavorava
alacremente sotto la guida di Louis B. Mayer e tutto era fatto ad arte e tutto era artefatto.
La stessa Judy Garland
divenne una creatura della MGM, che la portò al successo mondiale, le
tolse il sonno, l'appetito e le impose una dieta a base di sonniferi e
antidepressivi che non fu mai in grado di abbandonare.
Il biopic di Rupert Goold, già regista di un dramma sul furto d'identità (True Story), e l'interpretazione, straziante, di Renée Zellweger, sono qui per dire che dietro le torte di compleanno di plastica, dietro gli abiti di scena e le regole della finzione, c'era una donna che ha sofferto veramente, che ha amato lo show business come un genitore, cercando il suo applauso prima di ogni cosa, e da esso è stata divorata.
Naturalmente Judy Garland non è stata solo Dorothy Gale, ma la ragazzina del Kansas che cantava il suo sogno appoggiata allo steccato è diventata un'icona immortale e la Zellweger mette i brividi, tirata e ingobbita, per come riesce a replicare il suono della sua voce nel parlato, mentre il copione si muove avanti e indietro tra il '39 e il '69, rinnegando tutto il resto per concentrarsi sull'inizio e la fine, il patto col diavolo e il momento in cui questo ha cominciato a chiedere il conto.
"There's no place like home", sentenziava Dorothy alla fine della sua avventura in technicolor. E Judy ribadisce il concetto, da una prospettiva più drammatica e terminale. L'attrice non ha una casa, né i soldi per pagarla; perciò è costretta a esibirsi per denaro, lontana dai figli, facendo "famiglia" con chi le concede un po' di tempo e di compagnia disinteressata.
Più della figura di Rosalyn
Wilder, che si occupò della star durante la tournée londinese al The
Talk of the Town e la cui consulenza è stata preziosa in sede di
scrittura del film, ma che sullo schermo non ha ruolo che superi più di
tanto la sua funzione, convince, in questo senso, l'incontro con la
coppia di fan inglesi, l'approdo notturno nella loro cucina e le lacrime
al pianoforte: il miglior surrogato di calore domestico che la diva
potesse trovare. Il biopic di Rupert Goold, già regista di un dramma sul furto d'identità (True Story), e l'interpretazione, straziante, di Renée Zellweger, sono qui per dire che dietro le torte di compleanno di plastica, dietro gli abiti di scena e le regole della finzione, c'era una donna che ha sofferto veramente, che ha amato lo show business come un genitore, cercando il suo applauso prima di ogni cosa, e da esso è stata divorata.
Naturalmente Judy Garland non è stata solo Dorothy Gale, ma la ragazzina del Kansas che cantava il suo sogno appoggiata allo steccato è diventata un'icona immortale e la Zellweger mette i brividi, tirata e ingobbita, per come riesce a replicare il suono della sua voce nel parlato, mentre il copione si muove avanti e indietro tra il '39 e il '69, rinnegando tutto il resto per concentrarsi sull'inizio e la fine, il patto col diavolo e il momento in cui questo ha cominciato a chiedere il conto.
"There's no place like home", sentenziava Dorothy alla fine della sua avventura in technicolor. E Judy ribadisce il concetto, da una prospettiva più drammatica e terminale. L'attrice non ha una casa, né i soldi per pagarla; perciò è costretta a esibirsi per denaro, lontana dai figli, facendo "famiglia" con chi le concede un po' di tempo e di compagnia disinteressata.
Sebbene non aggiunga nulla a quanto già noto, e denunci abbastanza apertamente la sua ispirazione teatrale, Judy è il ritratto riuscito di un dramma esistenziale, che sposa e regge un registro difficile com'è quello del "compassionevole" al cinema, senza cercare a tutti i costi l'equilibrio con la commedia, ma lasciando che essa si affacci solo tra le righe, amarissima, grazie alle straordinarie doti da animale da palcoscenico di Judy Garland e, in questo caso, di Renée Zellweger.
fonte: Recensione di Marianna Cappi www.mymovies.it