mercoledì 7 ottobre 2020

Torino il 35° "Lovers Film Festival" > Fra gli ospiti del più antico festival LGBTQI d’Europa: Luca Tommassini

L’immagine 2020 progettata e donata al Festival da: Leo Ortolani
Un nuovo premio del Torino Pride

Il Lovers Film Festival, il più antico festival sui temi LGBTQI (lesbici, gay, bisessuali, trans, queer e intersessuali) diretto da Vladimir Luxuria, che si svolgerà interamente dal vivo dal 22 al 25 ottobre 2020 a Torino presso il Cinema Massimo, la multisala del Museo Nazionale del Cinema, può contare su un nuovo visual d’artista, su un nuovo premio e sulla partecipazione di numerosi ospiti d’eccezione fra cui Luca Tommassini.

Leo Ortolani per il Lovers Film festival

È Leo Ortolani, celebre fumettista italiano, ad aver creato e donato al festival l’immagine guida 2020 in occasione del trentacinquesimo compleanno (cfr. file allegato). Ispirata alla Dolce Vita felliniana, è una ricostruzione iconica della mitologia LGBTQ con tutti i suoi più caratteristici elementi fondanti. Al centro, Cinzia, la protagonista biondo platino che fa il bagno nella fontana: iconica e immaginifica trasposizione trans di Anita Ekberg.

Leo Ortolani è un fumettista molto noto per la serie Rat-Man tutt'ora prodotta da Panini Comics. Nel 1990 Leo Ortolani, per Le sconvolgenti origini del Rat-Man, ha vinto il premio come migliore sceneggiatore esordiente al Lucca Comics. Nel 2006 RatMan approda in televisione, con i cartoni animati trasmessi da Rai Due. Nel 2011 l’autore stampa il suo primo libro, Due figlie e altri animali feroci a cui seguono numerosissimi lavori. Tra le sue pubblicazioni si ricorda: Luna 2069 (Feltrinelli Comics, 2019); Andrà tutto bene (Feltrinelli, 2020) e Dinosauri che ce l'hanno fatta (Laterza, 2020). Dal libro Cinzia è stata realizzata una riduzione teatrale, Io sono cinzia, per la regia di Nicola Zavagli, applauditissima al Teatro del Giglio di Lucca durante Lucca Comics 2019.

Luca Tomassini ospite di Lovers

Il Lovers Film Festival può contare su molte presenze d’eccezione fra cui il ballerino, attore, coreografo, regista e direttore artistico Luca Tommassini che il 24 ottobre alle 22,30 (Sala Cabiria) sarà protagonista del talk con Vladimir Luxuria Una vita in movimento durante il quale sarà ripercorsa la sua carriera di successo internazionale da ballerino e coreografo attraverso i suoi video e film.

Luca Tommassini, volto televisivo molto amato, ha lavorato fra gli altri e le altre con Prince, Michael Jackson, Madonna, Bjork, Whitney Houston, Kylie Minogue, Ricky Martin, Jamiroquai, Robbie Williams, Beyoncé, Johnny Depp e Angelina Jolie e ha recentemente dato il proprio contributo coreografico all’ultimo film di Ferzan Ozpetek, La Dea Fortuna.

Sempre in Sala Cabiria, l’appuntamento sarà preceduto, alle 21, dalla proiezione fuori concorso di And then we danced di Levan Akin (Francia, 2019) che narra il rigido, conservatore e omofobo mondo della danza tradizionale georgiana. Molto apprezzato alla Quinzaine des Réalisateurs durante la settantaduesima edizione del Festival di Cannes e candidato dalla Svezia agli Oscar 2020, è il racconto di un percorso di formazione, di accettazione e consapevolezza, sullo sfondo di una società conservatrice e patriarcale.

Il premio del Torino Pride

Alle 3 sezioni competitive del festival – All The Lovers, Concorso Internazionale Lungometraggi; Real Lovers, Concorso Internazionale Documentari; Future Lovers, Concorso Internazionale Cortometraggi – e al premio speciale dedicato a Giò Stajano che Lovers, da un’idea dello scrittore Willy Vaira e di Claudio Carossa, dedica alla memoria di Giò Stajano, si aggiunge il premio Torino Pride che verrà assegnato al film in concorso e fuori concorso giudicato più efficace nell’affrontare i temi dell’attivismo e/o dell’autodeterminazione. Il premio in denaro fortemente voluto dal Coordinamento Torino Pride – la realtà che riunisce le associazioni lesbiche, gay, bisessuali e transgender del Piemonte, insieme ad associazioni non LGBT impegnate nel sostegno dei valori della laicità, del rispetto delle differenze e che da anni fa parte di  Ilga Europe – nasce per sancire il ruolo cardine che ha il cinema nella lotta per i diritti.

Il Lovers Film Festival dal 2005 è integrato nel Museo Nazionale del Cinema di Torino e si svolge con il contributo del MiBACT, della Regione Piemonte e del Comune di Torino

 

L'iniziativa fa parte di ‘Torino Città del Cinema 2020. Un progetto di Città di Torino, Museo Nazionale del Cinema e Film Commission Torino Piemonte, con il sostegno di Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, in collaborazione con Regione Piemonte, Fondazione per la Cultura Torino. www.torinocittadelcinema2020.it

fonte:  Lovers Film Festival ufficio stampa: con.testi – Torino & Roma

In libreria "Il pollo di mezzanotte" di Ella Risberidger

Un libro che è prima di tutto un manifesto di momenti per i quali vale la pena vivere. Guido Tommasi pubblica un libro di ricette pieno di speranza, per tornare a osservare il mondo con occhi innamorati

Lei è Ella Risbridger e The Times l’ha definita “la nuova scrittrice di libri di cucina più talentuosa della sua generazione”.

Ma che cos’è il talento per chi scrive libri di cucina?
Ricette infallibili, scritte benissimo?
Immagini accattivanti per semplici piatti?

Sfogliandolo si trovano piatti talmente invitanti che sarete colti da un’irrefrenabile voglia di provare le sue ricette. Il suo è un tipo di cucina che probabilmente riesce meglio se potrete contare su una bottiglia di vino aperta e un boccone di pane per fare la scarpetta. Se però decidete di mettervi comodi e di leggere questo libro sorseggiando una tazza di tè (o un bicchiere di quel vino di cui sopra), scoprirete che è anche e soprattutto un elenco di cose per cui vale la pena vivere – un manifesto di momenti per i quali vale la pena vivere. Insomma, un libro di ricette per tornare a osservare il mondo con occhi innamorati.

“Era stato un giorno complicato, per motivi complicati, ed ero in lacrime. Erano giorni che non mangiavo seriamente, e non ero quasi mai nemmeno stata a casa. Ero stufa di caffè doppi sciropposi al posto della cena, ed ero lì che piangevo sul pavimento della cucina: quel genere di pianto che ti fa venire il sospetto che potresti perfino morirci.

In qualche modo sono riuscita a recuperare mezza pastiglia di Valium dai detriti dell’armadietto delle medicine, e poi, miracolo dei miracoli, una scatola di zuppa di pomodoro dal caos della dispensa della cucina. E ho preso il Valium, ho scaldato la zuppa, lentamente, su fuoco basso, l’ho versata in una mug e l’ho portata a letto con un pezzo di pane raffermo, tostato e carico di burro. Erano le due del mattino, stavo mangiando una zuppa a letto e mi sentivo meglio.

E così, più o meno, è come mi sento sempre per pane e zuppa. Nessuna cucina di alto livello ha mai risollevato la tristezza la metà di una ciotola colma di zuppa di zucca e di un buon pane con un buon burro. Ormai non è più molto di moda amare il pane. È un bene che io non sia mai riuscita a essere alla moda, perché il pane l’ho sempre amato: lo amo follemente e incondizionatamente. A volte credo che non ci sia nessun pasto, non importa quanto pensato, bello o buono che scambierei con una fetta di pane spalmata di burro o con la parte finale di una pagnotta fresca appena sfornata”.

fonte: di     www.linkiesta.it

Canada > Justin Trudeau vuole rendere illegali le terapie di conversione e presenta una legge: “Sono umilianti e dannose per le persone LGBT”

Justin Trudeau e il Partito Liberale canadese presentano un disegno di legge contro le terapie di conversione.

Justin Trudeau è da sempre un alleato della comunità LGBT, si è presentato con tutta la famiglia a diversi Pride, ha sfilato in mezzo a migliaia di cittadini LGBT e si è sempre scagliato contro l’omofobia. In questi giorni il Partito Liberale ha presentato un disegno di legge che criminalizza le orrende terapie di conversione (colgo l’occasione per consigliarvi di vedere Boy Erased) in Canada. Il Primo Ministro canadese in un lungo discorso ha sottolineato come sia impossibile modificare il proprio orientamento ed ha aggiunto che queste terapie sono dannose e umilianti.

“È giunto il momento di porre fine a questa inaccettabile pratica screditata che ha ferito troppi canadesi LGBTQ. La terapia di conversione è dannosa e degradante e non ha posto in Canada. Spero che tutti i partiti facciano la cosa giusta sostenendo questo disegno di legge. È nostro dovere garantire i diritti di tutti, per questo è importante che passi questa legge che protegge le persone LGBTQ”.

Purtroppo quello delle terapie di conversione non è un problema solo americano, in Italia infatti ci sono molte comunità – spesso cattoliche – che sostengono di poter convertire i gay in etero (qui trovate un video).

Conversion therapy 'has no place in Canada,' says Trudeau as feds reintroduce bill to ban practice il video > QUI

Vi invito a firmare la petizione di (Possibile LGBT) che chiede che le terapie di conversione vengano messe al bando anche in Italia.

“Le terapie di conversione sono uno dei sintomi più evidenti della discriminazione che le soggettività LGBTI+ subiscono ogni giorno. Esse rappresentano delle pratiche barbare che possono includere ipnosi e elettroshock e sono finalizzate alla repressione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Queste terapie lesive della dignità e dei diritti umani non hanno alcuna base scientifica e hanno un impatto sulla salute di chi li subisce aumentando i casi di ansia, depressione e suicidio specialmente tra i giovani. L’Italia non dispone di leggi che vietino tali pratiche nonostante nelle scorse legislature siano state presentate proposte che andavano in questo senso. Dopo la Germania, anche nel nostro Paese serve una legge di questo tipo. Per questo ci appelliamo ai Ministri Speranza, Bonetti e Lamorgese per far approvare una norma che metta al bando le terapie riparative e ne vieti la loro promozione. Il testo completo della lettera ed i primi firmatari li trovate”.

fonte: Fabiano Minacci   www.biccy.it

Cinema > "Chiamami col tuo nome" Luca Guadagnino: "Farò il sequel e vi racconto la trama"

Dopo l'enorme successo di "Chiamami col tuo nome", Luca Guadagnino è pronto a realizzare il sequel della pellicola. 

Ecco tutti i dettagli

Luca Guadagnino realizzerà un sequel di “Chiamami col tuo nome” e i protagonisti saranno ancora una volta Elio e Oliver

A svelarlo è stato lo stesso regista all’indomani dall’emozionante notte degli Oscar in cui James Ivory ha conquistato la statuetta d’oro per la migliore sceneggiatura.

Il regista ha confessato di essere già al lavoro sul sequel di “Chiamami col tuo nome” insieme ad André Aciman, autore dell’omonimo libro. “Con André Aciman stiamo già pensando al prosieguo della storia, che sarà ambientata sei o sette anni dopo la prima. Sarà un nuovo film con un tono molto diverso e i protagonisti saranno sempre Armie Hammer e Timothée Chalamet”.

La storia raccontata da Guadagnino nella pellicola è ambientata in Italia e si svolge nel 1983. Nella pellicola il regista ha volutamente omesso una parte del romanzo in cui viene raccontata la storia dei protagonisti vent’anni dopo il loro primo incontro.

“Questa volta i due protagonisti saranno in giro per il mondo – ha svelato -, ma non posso dire di più poiché ci stiamo ancora lavorando e dobbiamo concludere la sceneggiatura”. Non è la prima volta che Luca Guadagnino parla del possibile sequel di “Chiamami col tuo nome”.

Qualche tempo fa, nel corso di una lunga intervista rilasciata a “Hollywood Report”, aveva svelato di voler raccontare ancora la storia di Elio e Oliver ambientando le vicende in contemporanea con la caduta del muro di Berlino e affrontando anche temi importanti come l’AIDS e i diritti LGBT.

“Sono pronto a raccontare una parte fondamentale per la loro storia – aveva spiegato -. Secondo me, Chiamami col tuo nome può essere visto come il primo capitolo della vita dei personaggi che abbiamo conosciuto nel film. Se il primo capitolo è un romanzo di formazione in cui Elio diventa un uomo, magari il prossimo capitolo sarà la posizione di questo uomo nel mondo, sarà la scoperta dei suoi desideri, e ci mostrerà com’è cambiato qualche anno dopo quel fortissimo pugno emotivo”.

Non solo: il regista aveva anche confessato di avere già in mente la prima scena del film: “Elio sarà un cinefilo, e mi piacerebbe vederlo in un cinema mentre guarda Once more – Ancora di Paul Vecchiali – aveva detto -. Quella potrebbe essere la prima scena del sequel”

fonte:    www.supereva.it

Il mondo del fashion piange Kenzo, lo stilista del Flower Power

Il 4 ottobre a Parigi è morto Kenzo Takada, per complicanze dovute al Covid

Un’altra vittima tra i personaggi noti. Il 4 ottobre a Parigi, nell’ospedale americano di Neuilly-sur-Seine, è morto Kenzo Takada, lo stilista giapponese. Aveva 81 anni. Ripercorriamo insieme le tappe principali della sua vita.

Kenzo nasce, quinto di sette figli, nel 1939 a Hyogo, sull’isola di Honshū. A 26 anni, dopo il diploma preso nella scuola di moda Bunka Gakuen, a Tokyo, si stabilisce a Parigi. La capitale francese, incantata dall’originalità delle sue proposte, gli spalanca le porte delle sfilate. Primo stilista giapponese a conquistare le passerelle parigine, insieme a Cardin, Dior e Chanel, Kenzo raggiunge presto una grande notorietà.

A Parigi Kenzo collabora con la maison francese Feraud e con la rivista Jardin des modes. Nel 1970 presenta la prima collezione alla Galerie Vivienne e apre la sua prima boutique Jungle Jap. Le riviste di moda più prestigiose cominciano a mettere in copertina modelle vestite Kenzo. Mentre le collezioni vengono presentate anche a New York e Tokyo. Il resto è una strada in discesa. Gli anni successivi al riconoscimento del Fashion Editor Club of Japan, nel 1972, sono solo una conferma di un successo annunciato.

Morto Kenzo, stilista originale, eclettico e controcorrente

Celebre la sfilata del 1973, alla Bourse de Commerce: un vero cocktail etnico, nel segno del gioco e del divertimento. Le modelle indossavano dal rebozo, l’indumento-fascia per portare il bambino della tradizione messicana, ai dirndl, classica mise femminile delle aree alpine, dai maglioni oversize scandinavi agli abiti di lana bianca con frange. Famose anche le sfilate del 1978 e 1979, entrambe svoltesi in un tendone da circo e conclusesi con l’entrata in scena in groppa a un elefante.

Insomma, Parigi aveva amato e quindi ricompensato con il successo il designer che era divenuto maestro del Flower Power. La locuzione, espressione tipica del movimento hippie, usata durante la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta come simbolo di una ideologia non violenta, diventa con Kenzo sinonimo di una moda coloratissima, che mixa stampati floreali a fantasie camouflage. Flower sarà nel 2000 il nome di un profumo di successo, probabilmente in onore di quella prima geniale intuizione che aveva rivoluzionato il mondo della moda.

Abiti e accessori, ma anche costumi e profumi

Ma oltre che originalissime e controcorrente, Kenzo ha dato prova di grande eclettismo, mettendo a segno nel corso degli anni Ottanta alcuni lanci. Realizza costumi per il teatro e per il cinema, una linea per bambini e una di abbigliamento maschile e firma, siamo giunti al 1998, una licenza per i profumi. Non mancheranno  prodotti per la cura del corpo, sotto il marchio Kenzoki, realizzati però dopo la vendita del brand, avvenuta nel 1993, al gruppo del lusso francese LVMH. Kenzo resta direttore creativo fino al 1999, quando sarà sostituito dallo stilista scandinavo R. Kreiberg.

Attualmente alla guida della maison c’è dal 2019 il designer portoghese Felipe Oliveira Baptista. Fa quasi sorridere pensare che alla sua ultima sfilata a Parigi hanno colpito i cappelli-zanzariera protagonisti delle collezioni Primavera/Estate 2021. Cappelli a falde larghe da cui partiva il tulle che copriva anche le gambe, certo adatti al distanziamento sociale. Ironia della sorte, nel frattempo, mentre lo stilista preparava la collezione, Kenzo lottava in ospedale contro la malattia.

Stampe macro floreali sbocciano su tutti i capi, dagli abitini ai pant cargo, ai giubbotti e spolverini over. Ai piedi zoccoli infradito giapponesi con suola di legno squadrata. Ma una collezione pervasa anche da una dicotomia. Ha sottolineato lo stilista: «Il mondo piange, e piangono anche i fiori sulle stampe per la collezione. Papaveri e ortensie degli archivi Kenzo sono stati lavorati al digitale con un effetto di lacrime». Oggi c’è un motivo in più per versarle.

fonte: Di Cinzia Cinque www.tustyle.it   Foto Getty Images

Ma tu, ti vuoi bene? Il libro “Imparare ad amarsi” ci insegna come farlo

Abbiamo intervistato Gerry Grassi e Rosa Iatomasi, autori di un testo che è anche un viaggio interiore alla scoperta di ciò che ci rende felici

Trascorriamo i nostri giorni alla ricerca, a volte estenuante, del vero significato dell’amore perché ormai lo abbiamo compreso quanto questo sentimento nasconda in sé mille sfaccettature. Dalla paura di aprirsi, al desiderio nascosto di sentire, di nuovo, il cuore battere. Continuiamo a chiederci se c’è un modo giusto per imparare ad amare, senza però fare i conti con l’amore che dovremmo provare nei nostri confronti. Perché è vera quell’affermazione che dice che se non amiamo noi stessi, non possiamo aprirci agli altri.

E allora sorge spontanea una domanda: ma noi ci vogliamo bene davvero? Un interrogativo, questo, troppe volte lasciato in fondo agli abissi delle giornate che viviamo, ma che torna in auge con un testo più attuale che mai. “Imparare ad amarsi” è il libro che porta la duplice firma di due psicoterapeuti: Gerry Grassi e Rosa Iatomasi, un testo volto alla ricerca interiore dell’armonia e del benessere personale che pone l’accento sulla consapevolezza dei bisogni e delle esigenze che riguardano la sfera privata di ognuno di noi.

Gli autori ci hanno raccontato che questo libro altro non è che un viaggio per iniziare a vivere una vita libera dai condizionamenti. Nel testo viene proposto il metodo Dea Bricks Circle, sperimentato su centinaia di persone e basato su tecniche ed esercizi mirati con cui ogni persona può imparare a sconfiggere le sue paure e le sue credenze limitanti.

Abbiamo raggiunto i due autori del libro, già noti per i loro percorsi, sperimentati sui pazienti, volti a trasformare la vita delle persone, per scoprire in che maniera “Imparare ad amarsi” può trasformarsi in un percorso personale che porta alla felicità.

Come è nata l’idea di Imparare ad amarsi?
Imparare ad amarsi nasce dal desiderio di rispondere ad un bisogno trasversale ai tempi e alle culture: amare se stessi. Tutte le persone che da anni incontriamo nei nostri studi ma anche nei contesti più informali, come al bar o in pizzeria, riferiscono di non sentirsi soddisfatte e appagate, di vivere una vita sbiadita. Questi dati ci hanno spinto a riflettere insieme, a confrontarci e a trovare un modo per aiutare concretamente le persone a fare qualcosa per se stesse, a migliorare la propria vita. Così, durante il lockdown abbiamo lavorato intensamente al nostro progetto e abbiamo trasformato un momento di crisi e cambiamento radicale delle nostre abitudini in un processo creativo e produttivo.

C’è un’età per imparare ad amarsi?
Imparare ad amarsi non ha un’età: è possibile imparare ad apprezzare se stessi, a prendersi cura di sé, a sentirsi responsabile della propria esistenza in qualsiasi momento della vita. Imparare ad amarsi è un viaggio in quella che noi abbiamo denominato Piramide Dell’Amore per indicare ogni passo da compiere, mattoncino dopo mattoncino, per sentirsi in sintonia con se stessi. La parola che non dovrebbe mai mancare accanto ad amare è credere, cioè avere fiducia, ritenere possibile quello che ancora non si conosce.

Perché sembra così difficile oggi prendersi cura di se stessi?
Il prendersi cura di se stessi è troppo spesso interpretato come un atto di egoismo. Mettere se stessi al primo posto è dissonante con l’idea comune che si debba essere generosi verso gli altri e che per poter essere apprezzati è necessario amare prima gli altri. Amare se stessi è invece il primo passo per amare l’altro: chi non ama se stesso non ama davvero. Nel 1300 Paolo e Francesca si amavano in modo diverso dalle coppie di oggi che si dedicano i brani dei Coldplay. Viviamo in una società in cui molto spesso hanno la precedenza il successo, il denaro, lo status sociale. Tutto questo sposta il nostro focus, altera i valori nei quali crediamo e l’amore assume forme sbagliate, come attaccamento eccessivo o distacco.

Quanto la società influenza quello che siamo e quello che scegliamo di fare?
La società, così come la famiglia e tutte le persone che ruotano intorno a noi nella nostra quotidianità, sono la fonte di condizionamenti che assorbiamo fin dalla nascita e che ci accompagnano per sempre. La società concorre a stimolare le nostre aspettative, a modellare le nostre credenze, a creare le nostre abitudini. Tutto ciò avviene in maniera continua e graduale. Questo sicuramente ci aiuta nel processo di “addomesticamento” degli istinti con cui nasciamo ed è importante per consentire la nostra integrazione con gli altri, ma può diventare un grosso limite nel momento in cui silenzia i nostri desideri e i nostri bisogni personali.

Gerry Grassi e Rosa Iatomasi, con questo libro e i loro percorsi, consigliano a tutte le donne di non rinunciare mai a se stesse e di credere nella possibilità di prendere in mano la propria vita per costruirla così come la desiderano.

fonte:  https://dilei.it

Storie > Cathy La Torre: «Il peso delle parole»

Scegliere quelle giuste è indispensabile per tutelare la dignità 
di tutte le identità di genere. Come spiega l'avvocata in prima linea contro le ingiustizie e le discriminazioni

L’articolo è stato pubblicato sul numero di Vanity Fair in edicola fino al 13 ottobre

È una donna, che veste come un uomo al quale piacciono le donne. Dice di sé di essere «lesbica e gender-fluid, non-binary, queer, fuori dalle categorie». Per Cathy La Torre definirsi è fondamentale: da quelle parole dipendono diritti importanti, per cui lei si batte dal 2008, quando ha fondato il Centro Europeo di Studi sulla Discriminazione.

Quarant’anni, avvocata, è il riferimento per chi subisce ingiustizie legate alla propria identità di genere (transgenderismo) o al proprio orientamento sessuale: «Due cose diverse fra loro e troppo spesso confuse: l’identità di genere è come io mi sento rispetto alla mia identità, attiene al rapporto che ho con me, il mio sentirmi uomo o donna, o nessuno dei due.

L’orientamento sessuale indica invece da chi sono attratta: posso essere eterosessuale, bisessuale, omosessuale, pansessuale, ma non dipende dal genere a cui sento di appartenere. Il triste e ormai famoso caso di Ciro e Maria Paola, quella ragazza morta a Caivano, ne è un esempio: la loro non era una relazione lesbica come è stato detto. Ciro è nato femmina, ma oggi è un uomo, si sente un uomo, e Maria Paola era una donna, il che vuol dire che la loro era una relazione eterosessuale. Le parole hanno un peso: se le sbagli togli dignità alle persone, rovini delle bellissime storie d’amore».
Ed è appunto per non mancare di rispetto e non offendere nessuno che, dopo quella sigla LGBTQ, si è aggiunto un «+», un plus che lascia la definizione aperta, che include tutte le lettere dell’alfabeto, per qualsiasi variante si voglia: ultimamente si è inserita anche la I come intersessuali e la A, per gli asessuali, poi la P per i poligami…

Ma perché c’è bisogno di definirsi?
«È necessario perché la legge ha bisogno di codificare: la legge non è un campo completamente aperto e in tribunale non è accettabile un’eccessiva discrezionalità. Se alcune persone rimangono in un limbo, senza diritti e riconoscimento da parte dello Stato, rischiano di non esistere. Pensiamo per esempio alle persone non-binary, come io stessa mi definisco, a chi cioè non riconosce la costruzione binaria del genere, ovvero l’idea che esistano solo due generi ben separati, o uomo o donna. In questi casi la legge non dà alcuna risposta. In Italia esiste un solo riconoscimento legale di persona non-binary e l’ho seguito io: il mio assistitu – si usa la U per non usare né la O del maschile né la A del femminile – è riuscitu a cambiare nome e adesso ha un nome neutro. Si può scegliere fra tanti: penso a Jean, Elia, Andrea, Ethan…».

Lei ha gestito centinaia di casi, ci racconta quelli esemplari, che hanno cambiato lo stato delle cose?
«Dopo che, nel 2015, abbiamo ottenuto dalla Cassazione la legge che prevede la possibilità di cambiare il nome e l’indicazione del genere sulla carta d’identità anche senza ricorrere all’intervento chirurgico sui genitali, si poneva però un problema: rispetto a chi cambiava nome senza l’intervento, chi voleva fare quell’operazione aveva tempi molto più lunghi prima di vedere corretti i propri documenti, perché per fare un passaggio di genere ti devi presentare davanti a un giudice una prima volta per avere l’ok all’intervento e una seconda volta per avere il cambio di nome, con i tempi della giustizia che ben conosciamo. Con una ragazza trans di Modena siamo invece riusciti a fare tutto in un’unica sentenza, risparmiando così anni di fatiche, umiliazioni, costi economici e psicologici. Quel caso ha fatto da apripista per tutti i tribunali d’Italia e quella procedura è ormai diventata la prassi. Un altro caso è quello di Chloe, che a Tempio Pausania, in Sardegna, ha ottenuto il permesso del cambio di sesso benché ancora minorenne».

Ma quando si può chiedere il cambio di genere sui documenti?
«Ci sono Paesi, come la Svezia, in cui è stata abolita la divisione tra maschile e femminile e, per esempio, in Spagna, a Malta, in Nuova Zelanda, in Argentina e in Brasile si va diretti all’ufficio anagrafe con una certificazione di uno psicologo. Invece in Italia bisogna andare in un tribunale, fare una causa in cui la controparte è lo Stato, e affidarsi a quello che deciderà il giudice, che dovrà essere convinto attraverso comprovati percorsi psicoterapeutici, testimonianze concrete di assunzioni ormonali per un tempo sufficiente tale da indicare una volontà definitiva, con la garanzia che non si cambi poi idea…».

Ma allora, se ci deve essere una fermezza indiscutibile, non è rischioso che i minorenni possano intraprendere un percorso di cambio di genere? Loro avrebbero tutto il tempo per cambiare idea.
«In realtà se sull’orientamento può essere normale una certa fluidità in età adolescenziale, l’identità di genere è primaria, la si può vedere da un’età precocissima: già da piccolissimi, dai 4/5/6 anni, si può percepire un’identità di genere opposta al sesso biologico e a 13 si sa bene chi si è. Riuscire a intervenire presto permette di sottoporsi a molti meno interventi chirurgici: finché si è giovani si può incidere sul corpo solo con gli ormoni, senza sottoporsi a quell’incredibile quantità di operazioni a cui si è invece costretti in un’età più avanzata».

Quando l’identità di genere non appare chiara, come ci si rivolge a queste persone per non offenderle?
«La cosa migliore è chiedere loro come preferiscono. Non c’è niente di male. Negli Stati Uniti usano il they, il loro, per non usare she, lei, o he, lui. Anche questa è un’attenzione».

Ma in giro c’è ancora tanta gente che non rispetta questa persone «fluide»?

«Assolutamente sì. C’è una grande discriminazione, soprattutto verso le persone trans. Anche nella comunità LGBTQ+ ci sono delle differenze. Gli uomini gay sono certamente i privilegiati: di solito altamente scolarizzati, non hanno figli e possono spendere di più per loro stessi, cosa che li rende molto amati dal mercato della moda. Ma se sei trans il discorso è diverso: i soldi ti serviranno soprattutto per portare avanti un’eventuale transizione e sarai meno considerato nella società dei consumi. Se poi sei trans e black, allora sei l’ultimo tra gli ultimi».

E i social che ruolo hanno?
«Per le persone LGBTQ+, l’avvento dei social è stato una rivoluzione. Prima, quando gli spazi di aggregazione erano solo fisici, incontrare propri simili non era semplicissimo. Nei piccoli paesi di provincia rischiavi di trovarti da solo. L’avvento di Internet ha permesso le prime chat tra persone LGBTQ+, ha aiutato l’emersione e comunque ha dato la possibilità di avere una vita a chi altrimenti non l’avrebbe avuta».

Il 10 novembre esce il suo nuovo libro Nessuna causa è persa (Mondadori). 
Grazie al suo impegno per le cause sociali nel 2019 ha vinto il The Good Lobby Awards per la categoria pro bono.

fonte: di Valeria Vantaggi     www.vanityfair.it   foto MAX & DOUGLAS