#svegliatitalia. Ddl Cirinnà, la discussione in Senato si avvicina. E il tema dei diritti civili sarà al centro di una giornata di mobilitazione prevista per sabato 23 gennaio. Lo slogan è “Svegliatitalia”: oltre cento piazze. Poi un presidio permanente all’esterno del Senato della Repubblica. Parte della piattaforma programmatica è costruita intorno a un appello diffuso da Arcigay, Arcilesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno e Mit. Perché “che piaccia o no è già famiglia”.
Questo il testo dell’appello:
«L’Italia è uno dei pochi paesi europei che non prevede nessun riconoscimento giuridico per le coppie dello stesso sesso. Le persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali non godono delle stesse opportunità degli altri cittadini italiani pur pagando le tasse come tutti. Una discriminazione insopportabile, priva di giustificazioni. Il desiderio di ogni genitore è che i propri figli possano crescere in un Paese in cui tutti abbiano gli stessi diritti e i medesimi doveri.
Chiediamo al Governo e al Parlamento di guardare in faccia la realtà, di legiferare al più presto per fare in modo che non ci siano più discriminazioni e di approvare leggi che riconoscano la piena dignità e i pieni diritti alle persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, cittadini e cittadine di questo Paese.
La reciproca assistenza in caso di malattia, la possibilità di decidere per il partner in caso di ricovero o di intervento sanitario urgente, il diritto di ereditare i beni del partner, la possibilità di subentrare nei contratti, la reversibilità della pensione, la condivisione degli obblighi e dei diritti del nucleo familiare, il pieno riconoscimento dei diritti per i bambini figli di due mamme o di due papà, sono solo alcuni dei diritti attualmente negati. Questioni semplici e pratiche che incidono sulla vita di milioni di persone.
Noi siamo sicuri di una cosa: gli italiani e le italiane vogliono l’uguaglianza di tutte e di tutti».
Qui l’elenco delle piazze in cui, il 23 gennaio, si terranno le iniziative
fonte: http://saviano.blogautore.repubblica.it twitter: @carminesaviano
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giovedì 21 gennaio 2016
Lgbt: Corte Costituzionale, transessualismo, diritto alla salute e diritto all’identità di genere - segnalazione dell'avv. Nicola Posteraro
Corte Costituzionale, 21 ottobre 2015, n. 221
Pres. A. Criscuolo – Red. G. Amato - giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), promosso dal Tribunale ordinario di Trento, nel procedimento vertente tra D.B. e Pubblico ministero presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Trento, con ordinanza del 20 agosto 2014, iscritta al n. 228 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Transessualismo – Art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) – necessità di modificazione chirurgica dei tratti sessuali primari al fine di ottenere la rettificazione anagrafica del sesso – non sussiste.
Con un’ordinanza del 20 agosto 2014, il Tribunale ordinario di Trento sollevava – in riferimento agli artt. 2, 3, 32, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso).
Tale disposizione prevede che “La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.
Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione censurata si poneva in contrasto con gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, poiché la previsione della necessità, ai fini della rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, dell’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari attraverso trattamenti clinici altamente invasivi, “pregiudicherebbe gravemente l’esercizio del diritto fondamentale alla propria identità di genere”.
Veniva, inoltre, denunciato il contrasto con gli artt. 3 e 32 sottoposizione della persona a trattamenti sanitari (chirurgici o ormonali), estremamente invasivi e pericolosi per la salute. Il Tribunale rimettente, chiamato a fare applicazione dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, escludeva la possibilità di interpretare la disposizione in esame nel senso di ritenere ammissibile la rettificazione dell’attribuzione di sesso, anche in assenza della modificazione dei caratteri sessuali primari. In particolare, il giudice a quo osservava che l’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), prevedendo che “Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”, sembra consentire che il trattamento medico-chirurgico sia solo eventuale. Il rimettente ha ritienuto, tuttavia, che la previsione di tale eventualità non significasse che la rettificazione di attribuzione di sesso potesse essere ottenuta a prescindere dall’adeguamento dei caratteri sessuali primari, bensì soltanto che potessero esservi casi concreti nei quali gli stessi fossero già modificati (ad esempio, per un intervento già praticato all’estero, ovvero per ragioni congenite).
Il giudice a quo ha osservato, inoltre, che l’imposizione di un determinato trattamento medico, sia esso ormonale, ovvero di riassegnazione chirurgica dei caratteri sessuali, costituirebbe una grave ed inammissibile limitazione del diritto all’identità di genere. Ad avviso del rimettente, il raggiungimento dello stato di benessere psico-fisico della persona si realizza attraverso la rettificazione di attribuzione di sesso, e non già con la riassegnazione chirurgica sul piano anatomico (dalla persona non sempre voluta).
Nel merito, i giudici, con una interpretativa di rigetto, affermano la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982 non è fondata. Ciò in quanto la disposizione in esame costituisce l’approdo di un’evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU). >>CONTINUA A LEGGERE CLICCANDO QUESTO LINK
Pres. A. Criscuolo – Red. G. Amato - giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), promosso dal Tribunale ordinario di Trento, nel procedimento vertente tra D.B. e Pubblico ministero presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Trento, con ordinanza del 20 agosto 2014, iscritta al n. 228 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Transessualismo – Art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) – necessità di modificazione chirurgica dei tratti sessuali primari al fine di ottenere la rettificazione anagrafica del sesso – non sussiste.
Con un’ordinanza del 20 agosto 2014, il Tribunale ordinario di Trento sollevava – in riferimento agli artt. 2, 3, 32, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso).
Tale disposizione prevede che “La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.
Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione censurata si poneva in contrasto con gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, poiché la previsione della necessità, ai fini della rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, dell’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari attraverso trattamenti clinici altamente invasivi, “pregiudicherebbe gravemente l’esercizio del diritto fondamentale alla propria identità di genere”.
Veniva, inoltre, denunciato il contrasto con gli artt. 3 e 32 sottoposizione della persona a trattamenti sanitari (chirurgici o ormonali), estremamente invasivi e pericolosi per la salute. Il Tribunale rimettente, chiamato a fare applicazione dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, escludeva la possibilità di interpretare la disposizione in esame nel senso di ritenere ammissibile la rettificazione dell’attribuzione di sesso, anche in assenza della modificazione dei caratteri sessuali primari. In particolare, il giudice a quo osservava che l’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), prevedendo che “Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”, sembra consentire che il trattamento medico-chirurgico sia solo eventuale. Il rimettente ha ritienuto, tuttavia, che la previsione di tale eventualità non significasse che la rettificazione di attribuzione di sesso potesse essere ottenuta a prescindere dall’adeguamento dei caratteri sessuali primari, bensì soltanto che potessero esservi casi concreti nei quali gli stessi fossero già modificati (ad esempio, per un intervento già praticato all’estero, ovvero per ragioni congenite).
Il giudice a quo ha osservato, inoltre, che l’imposizione di un determinato trattamento medico, sia esso ormonale, ovvero di riassegnazione chirurgica dei caratteri sessuali, costituirebbe una grave ed inammissibile limitazione del diritto all’identità di genere. Ad avviso del rimettente, il raggiungimento dello stato di benessere psico-fisico della persona si realizza attraverso la rettificazione di attribuzione di sesso, e non già con la riassegnazione chirurgica sul piano anatomico (dalla persona non sempre voluta).
Nel merito, i giudici, con una interpretativa di rigetto, affermano la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982 non è fondata. Ciò in quanto la disposizione in esame costituisce l’approdo di un’evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU). >>CONTINUA A LEGGERE CLICCANDO QUESTO LINK
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