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Mariella Milani – Credits: Simona Filippini |
Mariella Milani, la signora della moda,
racconta a DiLei di "Fashion Confidential", dei suoi incontri con i
grandi stilisti e di come stanno cambiando le cose nel lusso
Mariella Milani è una delle prime donne a condurre
il Tg2 e che è stata una delle poche a raccontare il fashion system dal
punto di vista economico, sociologico e di costume.
Oggi è protagonista di una serie di podcast dal titolo, Fashion Confidential,
ideata e prodotta dalla media company ACTION MEDIA Ltd e tratta dal
libro omonimo edito da Sperling&Kupfer. Mariella Milani conduce gli
ascoltatori in un viaggio alla scoperta della “moda oltre la moda”, in
cui rivivono non solo gli amarcord della Golden Age del fashion
system fatto di stilisti osannati come divi, eventi di grande impatto
scenografico e indimenticabili top model, ma viene svelato anche tutto
ciò che si nasconde dietro il sipario e che nessuno ha mai raccontato.
Dalla sfilata di Fendi sulla Grande Muraglia cinese a quella di Dior
nel Foyer de l’Opéra di Parigi, dalla colazione con Valentino Garavani
nel castello di Wideville all’incontro-scontro con Alexander McQueen a
Londra, dall’emozione dell’addio alle passerelle di Yves Saint Laurent
all’opulenza delle feste di Roberto Cavalli in Costa Smeralda.
Ci racconti della tua serie di podcast, Fashion Confidential?
Partiamo da una premessa. Avendo una lunga storia professionale, la cosa
che più mi interessa è la novità, è quello che io non conosco, perché
credo che la nostra vita debba essere una scoperta quotidiana. Io faccio
quello che faccio, sempre con grande passione. Ho sempre affrontato il
mio lavoro da giornalista con entusiasmo, anche quando era duro e
pesante.
Dunque, per quanto riguarda i podcast, l’idea mi è venuta leggendo un
articolo su un quotidiano di cui, sottolineo, non posso mai fare a meno,
anche se mi sono data alla tecnologia, tanto che tutte le mattine il
mio giornalaio me ne fa trovare tre dietro la porta. In questo articolo
si diceva che dal 2019 al 2020 i podcast erano aumentati del 15% e che
14 milioni di persone li ascoltavano. Questi dati mi hanno fatto pensare
che i podcast possono essere uno strumento del futuro e che forse è
finita l’era della superficialità cui per esempio ci hanno abituato i
social.
Ti faccio un esempio, una volta su Instagram
ho voluto raccontare che cosa ha rappresentato Calvin Klein nella moda,
il suo logo, l’utilizzo che ne ha fatto. Per farlo, volevo servirmi dei
Reel che però non durano più di 30 secondi, ma in così poco tempo è
faticoso esprimere il senso di quello che ha realizzato un gigante della
moda come lui, nonostante io abbia acquisito il dono della sintesi dopo
aver lavorato 33 anni al Tg2.
Invece, i podcast sono un racconto che si fa a voce e la voce è proprio
la mia cifra distintiva, da sempre mi è stato detto che cattura
l’attenzione. Non solo, con la voce si possono esprimere i sentimenti,
l’ironia, si riesce a dare colore alla notizia.
Fashion confidential è anche il titolo del tuo libro…
Sì, io non volevo fare un audiolibro che è la semplice lettura del
testo. Mi piaceva proprio l’idea di fare dei podcast perché sono dei
racconti, volevo raccontare quello che ho scritto, usando appunto
l’inflessione della mia voce esprimendo i miei sentimenti, i miei stati
d’animo, catturando l’empatia di chi li ascolta. Da qui, ho conosciuto
Manuela Rocchi di Action Media e lei mi ha proposto il progetto dei
podcast Fashion confidantial. Così dopo aver scritto il libro,
ho ricominciato con i racconti, perché penso che questo sia il futuro,
visto anche l’aumentato interesse per i podcast. Come diceva Steve Jobs:
‘La cosa importante è pensare in modo nuovo’ e io cerco di adeguarmi al
nuovo pensiero.
D’altro canto, il podcast può essere inteso come il cugino della radio,
perché si può ascoltare dove e quando si vuole e contemporaneamente si
possono fare altre cose. L’ascolto sta sostituendo la visione.
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Donatella Versace e Mariella Milani |
Tra i tuoi podcast, uno è dedicato a Gianni Versace, ce ne parli?
Il mio primo incontro con la moda nel 1994 è stato proprio in via del
Gesù con Gianni Versace. Io allora ero una neofita di quel mondo.
L’allora direttore del Tg2, Clemente Mimun, voleva dare molto più spazio
a tutti i settori del made in Italy, e mi propose di occuparmi di moda.
Il mio primo debutto fu proprio con Gianni Versace e non sapevo che
allora si diceva che lui vestiva le amanti e Armani le mogli.
Quindi mi
presentai all’appuntamento con un tailleur blu di Armani, perché avendo
fatto la conduttrice del tg, per me rappresentava un power dress che
garantiva autorevolezza e serietà.
Versace mi squadrò dalla testa ai
piedi, non disse nulla ma io mi accorsi che non approvava il mio modo di
vestire, anche perché non conoscevo la battuta che circolava su di
loro. Nel podcast racconto tutta la grandezza di Gianni Versace che è
stato un creativo visionario, capace di rendere glamour e meravigliosa
una spilla da balia.
Donne straordinarie l’hanno portata, come Lady Diana
sul suo abito nero o Liz Hurley che si fece conoscere con il vestito di
Versace. Per non parlare della maglia di metallo e dei suoi abiti così
sexy, frutto del suo genio. Poi è lui che ha di fatto creato il fenomeno top model,
Naomi Campbell, Linda Evangelista, Claudia Schiffer, Carla Bruni. Con
Gianni ho avuto un ottimo rapporto perché era un uomo di squisita
gentilezza.
Chi sono gli altri stilisti di cui parli nei tuoi podcast?
Jean Paul Gautier e i giapponesi. E per giapponesi intendo Comme des Garçons, ossia Rei Kawakubo, Issey Miyake, Yohji Yamamoto.
È cambiata la moda con la pandemia?
In modo assolutamente radicale. Intanto, negli anni Novanta, come ho
scritto nel mio libro, la moda era un mondo scoppiettante. Io ho
assistito a eventi pazzeschi come la sfilata sulla Grande Muraglia
cinese con 80 metri di passerella o le sfilate dell’Alta Moda nel foyer
dell’Opera di Parigi. Si trattava di eventi irripetibili, che costavano
miliardi di lire. L’opulenza di allora non ci sarà mai più. Adesso la
moda è molto cambiata e con la pandemia è diventata digitale. Si sta
cercando un modo diverso di rappresentarla. C’è chi come Dior si è
rivolto a registi come Garrone, per fare dei veri e propri film.
La parola che dominerà la moda del futuro è “sostenibilità”.
Oggi se ne parla già molto, anche se non è ancora un fatto compiuto. La
moda sostenibile va costruita e anche gli acquirenti vanno educati a
questo concetto. Se una t-shirt costa 7 euro, è evidente che ci si è
serviti di una mano d’opera sottopagata. Una moda sostenibile deve essere anche etica
e ciò significa pagare il giusto prezzo a chi confeziona i prodotti.
Altra parola chiave è “genderless”, ossia la caduta della distinzione di
genere tra uomo e donna, senza dimentica però il potere delle donne.
Questo ovviamente porta a un diverso concetto di bellezza per cui sulle
passerelle sfilano modelle senza distinzioni di età e sesso. I
consumatori sono più esigenti, anche per quello che riguarda la
tracciabilità dei capi e d’altro canto è diminuito il potere d’acquisto.
Non a caso, concludo il mio libro con la frase di Steve Jobs: “think
different” (pensa in modo diverso). Se la moda saprà cambiare, forse ce
la farà. Altrimenti la crisi economica la metterà in ginocchio, non solo
le piccole aziende ma anche le grandi griffe, alcune delle quali sono
state già costrette a chiudere i negozi.
Ci sono già oggi delle maison che stanno attuando la rivoluzione?
Attualmente ci stanno provando i piccoli brand che però faticano a
ottenere finanziamenti. Ma stanno provando a realizzare prodotti
sostenibili. E poi le multinazionali del lusso che possono sperimentare
perché hanno tantissimi negozi e linee. Bisogna puntare su un lavoro
artigianale di grande qualità ma anche con un contenuto maggiore di
creatività, perché quello che secondo me ha portato alla disaffezione
dei consumatori è stata l’eccessiva omologazione e poi prezzi così
elevati che scoraggiano l’acquisto. La preoccupazione di fare profitti
più che di fare prodotti creativi ha portato alla crisi della moda. Poi
il made in Italy ha un altro problema, ossia l’incapacità di fare
sistema, infatti le due multinazionali del lusso sono francesi, il
gruppo Kering e l’LVMH. Basti pensare che Versace, Gucci, Valentino,
Bottega Veneta, Loro Piana non sono più italiani. Con il mio libro e i
miei podcast cerco di dare il mio punto di vista su come dovrebbe
cambiare il mondo del made in Italy per riprendersi.
fonte: https://dilei.it