Gloria Gramaglia (in foto), del Comitato scientifico della NOI scende in campo affinché la provincia ragusana si apra all’assistenza Lgbt.
Un ‘SIG’, servizio/sportello identità di genere, a Ragusa? Potrebbe essere possibile grazie alle associazioni ‘Libellula’ e ‘Noi-National Organized Integration’.
Lo dichiara la referente per la Sicilia di ‘Libellula’, nonché esponente del Comitato scientifico della ‘Noi’, Gloria Gramaglia, che da anni porta avanti dei percorsi di assistenza volontaria alla disforia di genere non solo in provincia insieme alla Clinica del Mediterraneo ed all’ASP.
La referente di ‘Libellula’ chiede “un’organizzazione in rete che partendo dall’assistenza psicologica possa giungere anche alle operazioni di mastoplastica additiva evitando a tante giovani i ‘viaggi’ della speranza nel nord Italia o all’estero.
Sono tantissimi –spiega la Gramaglia- i giovani che vivono relazioni spesso complicate non solo con gli altri ma anche con sé stessi a causa della disforia di genere. Dal cambiamento della voce a quello di sesso, passaggi mai facili e mai scontati e che, purtroppo rischiano di essere effettuati in modo sbagliato con le persone sbagliate accanto.
Ogni cittadino –aggiunge la Gramaglia- ha il diritto di farsi operare da chi vuole e l’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, è da anni al fianco di queste persone ma purtroppo ci sono ancora regioni che non vogliono rimborsarne i costi.
La riattribuzione chirurgica di sesso –evidenzia Gloria Gramaglia, è un diritto non un capriccio. Purtroppo, da Roma in giù non c’è un solo sportello di assistenza. Vent’anni fa ero sola ad affrontare questo percorso, racconta, loro potrebbero non esserlo grazie anche alla NOI che ci affianca.
Ho già avuto un primo confronto con l’Asp, dice la Gramaglia. Spero di riuscire ad evitare che tante e tanti giovani oggi siano ancora costretti ad andar via”.
fonte http://www.noiintegration.eu La Sicilia- 29 ottobre 2013
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giovedì 21 novembre 2013
martedì 19 novembre 2013
Lgbt 20 Novembre Tdor, Transgender Day of Remembrance: Transfobia Legalizzata
In occasione del Tdor, Transgender Day of Remembrance, che si celebra in tutto il mondo il 20 Novembre, pubblichiamo un articolo di Michela Angelini.
Il 20 Novembre vengono commemorate le vittime di omicidi transfobici che nel 2013 sono state 238 nel mondo, 1374 dal 2008 ad oggi. L’Italia con le sue 5 vittime si conferma, anche quest’anno, come primo paese del continente Europeo per omicidi di persone transessuali, pari alla Turchia cui l’anno scorso era seconda.
“È terribile e faremo qualcosa nei primi 100 giorni di governo!”, risponderebbe un mio ipotetico interlocutore politico. Non possono esistere, nel 2012, persone giustiziate con colpi di pistola, mutilate vive, picchiate fino morire di traumi interni solo perché facenti parte di una minoranza discriminata. Palese che, chiunque, condannerebbe questi atti di efferata violenza ma cos’è la violenza?
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) definisce la violenza come “utilizzo intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che determini o che abbia un elevato grado di probabilità di determinare lesioni, morte, danno psicologico, cattivo sviluppo o privazione
Leggendo questa definizione mi viene da pensare ad un soggetto. Lo Stato, nella figura di medici, giudici, giuristi, avvocati, impiegati pubblici. Poi, però, mi viene da puntare lo sguardo anche sulla società che ci circonda ed includo in quella definizione massmedia, farmacisti, datori di lavoro, impiegati postali, padroni di casa. Ogni soggetto cui siamo costretti a mostrare un documento o il codice fiscale è potenzialmente artefice di transfobia. Come possiamo essere soggetti attivi e partecipi di questa società se ogni giorno subiamo danni psicologici da mal-educati cittadini e istituzioni, cui non interessa minimamente impegnarsi nel riconoscere la nostra identità e garantirci i diritti costituzionalmente dovuti a tutti gli italiani, noi compresi?
Lo Stato, nella figura di uno psichiatra di un ospedale pubblico e nella figura di un endocrinologo di un ospedale pubblico, ci consente l’avvio dell’iter di transizione prima e ci prescrive ormoni poi.
Lo Stato, tramite la legge – sanatoria 164/82 accetta che la transessualità sia una variante di genere e che, chi ne fa richiesta, debba essere assistito dal servizio pubblico nella transizione.
Questo non è sempre vero, soprattutto al sud Italia, carente di strutture con personale educato alle nostre problematiche, non è così raro incontrare professionisti che si rifiutano di ottemperare al loro dovere o rendono molto difficoltoso l’inizio del percorso. Non è transfobia questa?
L’interpretazione data alla sopracitata legge, da parte della giurisprudenza, ci permette di cambiare i documenti non quando cambiamo lineamenti del viso e forme del corpo, ma solo a seguito di interventi chirurgici genitali. Arriva, per tutte e tutti, quel momento in cui non si è più credibili nei panni del sesso che il documento indica, ma allo stato non importa. Ci costringe a vivere in società con la faccia che dice donna e i documenti che dicono uomo o con la faccia che dice uomo e i documenti che dicono donna.
Lo stato aiuta, così facendo, le persone transfobiche ad identificarci come diversi ogni qualvolta sia necessario mostrare un documento: ufficio di collocamento, lavoro, posta, farmacie, controlli delle forze dell’ordine, stipula di un contratto d’affitto, iscrizione alla palestra o quando si richiede la tessera per la raccolta punti al supermercato. Lo stato, restando in silenzio e additandoci come persone diverse, non si rende colpevole di transfobia? Come può, la sola legge contro la transfobia impedire, a chi ci sottopone a colloquio di lavoro, di scartarci con qualche scusa? Non potremmo, ad esempio, essere inclusi in una qualche categoria protetta, per facilitarci l’ingresso (e la permanenza) nel mondo del lavoro? La transfobia si combatte dando visibilità positiva alle persone transessuali e, facilitare l’assunzione, è uno tra i modi migliori di favorire l’integrazione.
Che messaggio si dà quando ci mostrano, in tv e sui giornali, solo ed esclusivamente come donne aggettivate al maschile, come fenomeni da baraccone cui non è concessa nemmeno la dignità del pronome corretto, come prostitute e consumatrici di droghe? Perché non si parla di quelle transessuali integrate nella società che contribuiscono a mandare avanti l’Italia? Quanti sanno che esistono anche uomini transessuali? Non è transfobia questa?
Quante volte, durante una causa di separazione, l’avvocato consiglia a persone transessuali (ma anche, purtroppo a persone omosessuali) di non avanzare troppe richieste al partner (anche se legittime) perché “non si sa mai che giudice si incontri all’udienza”? Non è omotransfobia questa?
Come accennavo, non per legge ma per interpretazioni della giurisprudenza, dobbiamo sottoporci ad interventi chirurgici distruttivi e ricostruttivi, disposti da un giudice, per poter avanzare richiesta, al tribunale, di adeguamento dei documenti.
Pare sia più importante aver documenti congrui ai genitali che alla faccia, ma noi non giriamo nude e nudi tra la gente. Probabilmente vi passiamo accanto ogni giorno senza che nemmeno ve ne accorgiate. Porre il focus sulla presenza o assenza di gonadi invece che sull’apparenza non è transfobia?
Avete mai pensato a chi appartiene il vostro corpo? Volendo fare una mastoplastica esagerata, tatuarvi dalla testa ai piedi, riempirvi di piercing ovunque, rifarvi naso, polpacci e glutei o chiedendo di dividere la lingua in due parti, per farla assomigliare a quella di una lucertola, verrebbe da pensare che appartenga all’individuo che lo abita. Se siete transessuali non la pensereste così. Nonostante fior fior di medici che, con visite e relazioni, dichiarano che non siamo affatto pazzi, ma che dobbiamo cambiare il nostro corpo per star bene con noi stessi e con gli altri, dobbiamo chiedere il permesso a un giudice, che autorizzerà un chirurgo ad intervenire:
Per rimuovere il seno e creare un simil pene ad un uomo transessuale (ftm) o creare una simil vagina ad una donna transessuale (mtf) serve, quindi, il benestare di un tribunale.
Dal chirurgo non è richiesto un certificato che dica che siamo capaci di intendere e di volere, ma una sentenza, che lo autorizzi a procedere, probabilmente per non essere accusato di lesioni personali. Occorrerà, quindi, un giudice che valuti la correttezza del nostro percorso di transizione avviato da medici di ospedali pubblici (già in atto quando ci si presenta in tribunale), che hanno scritto nero su bianco una diagnosi: soffriamo della differenza tra la nostra apparenza esteriore ed il nostro sentire interiore che non ci permette di vivere serenamente e, per questo, necessitiamo di cure mediche atte a far coincidere le due cose.
Per raggiungere lo stato di salute ci sarà, quindi, chi ha necessità di intervenire chirurgicamente e fare, ad esempio, di un pene una vagina, ma anche chi necessita solamente di vivere nei panni sociali del genere opposto e che non ha la minima intenzione di sottoporsi ad interventi mutilanti.
Questo giudice, la cui necessità reale non mi è ancora chiara, potrebbe leggere la documentazione fornita dal nostro avvocato, composta di relazioni di psicologi, psichiatri ed endocrinologi, tutti professionisti statali, che dicono all’unisono, che la persona portata a giudizio sta seguendo un iter medico trasparente e legale. Sarebbe troppo facile.
Il giudice prenderà tutta la documentazione medica e, senza farsi troppe domande, chiederà ad un CTU, un medico assunto dal tribunale ma pagato dalla persona transessuale, di verificare la documentazione medica fornita. L’udienza verrà così rimandata di due o tre mesi, per dare tempo al perito di indagare sul percorso di transizione.
Cosa dovrei pensare quando vengono date motivazioni del tipo “verificare se è veramente questa la strada migliore da percorrere”, come giustificazione all’imposizione di tecnico di parte? Devo pensare che un rappresentante della giustizia italiana non si fidi di un team di medici della sanità pubblica italiana? Vorrei poi sapere, visto che si chiede se la chirurgia sia la strada migliore da percorrere, quali possano essere le possibili alternative per una persona che, come minimo, prende ormoni da un anno al momento della prima udienza.
Questo ipotetico giudice costringerebbe, forse, un ragazzo FtM a vivere per sempre con il seno, producendo “l’effetto donna barbuta del circo” ogni volta che, questo, si trova in contesti sociali? Decreterebbe, forse, che i medici che hanno condotto questa donna a diventare uomo si son sbagliati, imponendo di assumere estrogeni per tornare come prima? Quali competenze ha un giudice del genere per valutare se far procedere o meno una persona transessuale nel percorso di transizione?
Richiedere una verifica, inutile, a spese della persona transessuale, riguardo il lavoro fatto da medici statali non è transfobia?
Poi c’è l’ultimo grave atto di violenza sociale. Ad oggi, sono state autorizzate persone al cambiamento dei documenti solo a seguito di avvenuta sterilizzazione per rimozione chirurgica degli organi genitali, maschili per le MtF o femminili per gli FtM, ad esclusione di un unico caso dove, però, la sentenza sottolinea che anni di terapia con androcur (il farmaco che, oltre ad abbassare i livelli di testosterone, distrugge le cellule testicolari) sono ragionevolmente sufficienti per essere sterile.
Non è transfobia costringere una persona alla sterilizzazione? Non è transfobia negare il cambio di documenti, ad inizio terapia, costringendo le persone transessuali ad anni di stigma sociale, in una società che lo stato non educa alle diversità? Non è transfobia far firmare un consenso informato che ci avvisa della probabile sterilità, data dalla terapia ormonale, invece di indicarci come conservare i gameti?
Ecco qua la transfobia legalizzata, quella continua violenza psicologica ed esclusione sociale prodotta dal nostro stato menefreghista, perpetuata ai danni del gruppo dei e delle transessuali. Prima, ci nega la dignità di aver documenti conformi al nostro essere, rendendo difficoltoso l’accesso al lavoro e amplificando lo stigma sociale di tutte quelle persone che incrociano i nostri documenti. Poi, vestendo la toga di un giudice, decide se autorizzare o meno un chirurgo ad intervenire sul nostro corpo. Infine, nei panni di una giurisprudenza basata sul pregiudizio, ci costringe ad essere sterilizzati per adeguare i documenti, anche se non sentiamo la necessità di sottoporci a chirurgie distruttive.
Il costo di questa violenza, alla faccia della gratuità del percorso, tra terapia, psicologi, relazioni psichiatriche, perizie di parte e spese legali può arrivare anche a 15.000 euro.
Reputo lo Stato primo soggetto da denunciare al varo di una legge che punisca la transfobia, perché colpevole di alimentare la violenza nei nostri confronti quando dovrebbe essere al nostro fianco, come garante della nostra salute.
fonte http://www.intersexioni.it/transfobia-legalizzata/
Il 20 Novembre vengono commemorate le vittime di omicidi transfobici che nel 2013 sono state 238 nel mondo, 1374 dal 2008 ad oggi. L’Italia con le sue 5 vittime si conferma, anche quest’anno, come primo paese del continente Europeo per omicidi di persone transessuali, pari alla Turchia cui l’anno scorso era seconda.
“È terribile e faremo qualcosa nei primi 100 giorni di governo!”, risponderebbe un mio ipotetico interlocutore politico. Non possono esistere, nel 2012, persone giustiziate con colpi di pistola, mutilate vive, picchiate fino morire di traumi interni solo perché facenti parte di una minoranza discriminata. Palese che, chiunque, condannerebbe questi atti di efferata violenza ma cos’è la violenza?
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) definisce la violenza come “utilizzo intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che determini o che abbia un elevato grado di probabilità di determinare lesioni, morte, danno psicologico, cattivo sviluppo o privazione
Leggendo questa definizione mi viene da pensare ad un soggetto. Lo Stato, nella figura di medici, giudici, giuristi, avvocati, impiegati pubblici. Poi, però, mi viene da puntare lo sguardo anche sulla società che ci circonda ed includo in quella definizione massmedia, farmacisti, datori di lavoro, impiegati postali, padroni di casa. Ogni soggetto cui siamo costretti a mostrare un documento o il codice fiscale è potenzialmente artefice di transfobia. Come possiamo essere soggetti attivi e partecipi di questa società se ogni giorno subiamo danni psicologici da mal-educati cittadini e istituzioni, cui non interessa minimamente impegnarsi nel riconoscere la nostra identità e garantirci i diritti costituzionalmente dovuti a tutti gli italiani, noi compresi?
Lo Stato, nella figura di uno psichiatra di un ospedale pubblico e nella figura di un endocrinologo di un ospedale pubblico, ci consente l’avvio dell’iter di transizione prima e ci prescrive ormoni poi.
Lo Stato, tramite la legge – sanatoria 164/82 accetta che la transessualità sia una variante di genere e che, chi ne fa richiesta, debba essere assistito dal servizio pubblico nella transizione.
Questo non è sempre vero, soprattutto al sud Italia, carente di strutture con personale educato alle nostre problematiche, non è così raro incontrare professionisti che si rifiutano di ottemperare al loro dovere o rendono molto difficoltoso l’inizio del percorso. Non è transfobia questa?
L’interpretazione data alla sopracitata legge, da parte della giurisprudenza, ci permette di cambiare i documenti non quando cambiamo lineamenti del viso e forme del corpo, ma solo a seguito di interventi chirurgici genitali. Arriva, per tutte e tutti, quel momento in cui non si è più credibili nei panni del sesso che il documento indica, ma allo stato non importa. Ci costringe a vivere in società con la faccia che dice donna e i documenti che dicono uomo o con la faccia che dice uomo e i documenti che dicono donna.
Lo stato aiuta, così facendo, le persone transfobiche ad identificarci come diversi ogni qualvolta sia necessario mostrare un documento: ufficio di collocamento, lavoro, posta, farmacie, controlli delle forze dell’ordine, stipula di un contratto d’affitto, iscrizione alla palestra o quando si richiede la tessera per la raccolta punti al supermercato. Lo stato, restando in silenzio e additandoci come persone diverse, non si rende colpevole di transfobia? Come può, la sola legge contro la transfobia impedire, a chi ci sottopone a colloquio di lavoro, di scartarci con qualche scusa? Non potremmo, ad esempio, essere inclusi in una qualche categoria protetta, per facilitarci l’ingresso (e la permanenza) nel mondo del lavoro? La transfobia si combatte dando visibilità positiva alle persone transessuali e, facilitare l’assunzione, è uno tra i modi migliori di favorire l’integrazione.
Che messaggio si dà quando ci mostrano, in tv e sui giornali, solo ed esclusivamente come donne aggettivate al maschile, come fenomeni da baraccone cui non è concessa nemmeno la dignità del pronome corretto, come prostitute e consumatrici di droghe? Perché non si parla di quelle transessuali integrate nella società che contribuiscono a mandare avanti l’Italia? Quanti sanno che esistono anche uomini transessuali? Non è transfobia questa?
Quante volte, durante una causa di separazione, l’avvocato consiglia a persone transessuali (ma anche, purtroppo a persone omosessuali) di non avanzare troppe richieste al partner (anche se legittime) perché “non si sa mai che giudice si incontri all’udienza”? Non è omotransfobia questa?
Come accennavo, non per legge ma per interpretazioni della giurisprudenza, dobbiamo sottoporci ad interventi chirurgici distruttivi e ricostruttivi, disposti da un giudice, per poter avanzare richiesta, al tribunale, di adeguamento dei documenti.
Pare sia più importante aver documenti congrui ai genitali che alla faccia, ma noi non giriamo nude e nudi tra la gente. Probabilmente vi passiamo accanto ogni giorno senza che nemmeno ve ne accorgiate. Porre il focus sulla presenza o assenza di gonadi invece che sull’apparenza non è transfobia?
Avete mai pensato a chi appartiene il vostro corpo? Volendo fare una mastoplastica esagerata, tatuarvi dalla testa ai piedi, riempirvi di piercing ovunque, rifarvi naso, polpacci e glutei o chiedendo di dividere la lingua in due parti, per farla assomigliare a quella di una lucertola, verrebbe da pensare che appartenga all’individuo che lo abita. Se siete transessuali non la pensereste così. Nonostante fior fior di medici che, con visite e relazioni, dichiarano che non siamo affatto pazzi, ma che dobbiamo cambiare il nostro corpo per star bene con noi stessi e con gli altri, dobbiamo chiedere il permesso a un giudice, che autorizzerà un chirurgo ad intervenire:
Per rimuovere il seno e creare un simil pene ad un uomo transessuale (ftm) o creare una simil vagina ad una donna transessuale (mtf) serve, quindi, il benestare di un tribunale.
Dal chirurgo non è richiesto un certificato che dica che siamo capaci di intendere e di volere, ma una sentenza, che lo autorizzi a procedere, probabilmente per non essere accusato di lesioni personali. Occorrerà, quindi, un giudice che valuti la correttezza del nostro percorso di transizione avviato da medici di ospedali pubblici (già in atto quando ci si presenta in tribunale), che hanno scritto nero su bianco una diagnosi: soffriamo della differenza tra la nostra apparenza esteriore ed il nostro sentire interiore che non ci permette di vivere serenamente e, per questo, necessitiamo di cure mediche atte a far coincidere le due cose.
Per raggiungere lo stato di salute ci sarà, quindi, chi ha necessità di intervenire chirurgicamente e fare, ad esempio, di un pene una vagina, ma anche chi necessita solamente di vivere nei panni sociali del genere opposto e che non ha la minima intenzione di sottoporsi ad interventi mutilanti.
Questo giudice, la cui necessità reale non mi è ancora chiara, potrebbe leggere la documentazione fornita dal nostro avvocato, composta di relazioni di psicologi, psichiatri ed endocrinologi, tutti professionisti statali, che dicono all’unisono, che la persona portata a giudizio sta seguendo un iter medico trasparente e legale. Sarebbe troppo facile.
Il giudice prenderà tutta la documentazione medica e, senza farsi troppe domande, chiederà ad un CTU, un medico assunto dal tribunale ma pagato dalla persona transessuale, di verificare la documentazione medica fornita. L’udienza verrà così rimandata di due o tre mesi, per dare tempo al perito di indagare sul percorso di transizione.
Cosa dovrei pensare quando vengono date motivazioni del tipo “verificare se è veramente questa la strada migliore da percorrere”, come giustificazione all’imposizione di tecnico di parte? Devo pensare che un rappresentante della giustizia italiana non si fidi di un team di medici della sanità pubblica italiana? Vorrei poi sapere, visto che si chiede se la chirurgia sia la strada migliore da percorrere, quali possano essere le possibili alternative per una persona che, come minimo, prende ormoni da un anno al momento della prima udienza.
Questo ipotetico giudice costringerebbe, forse, un ragazzo FtM a vivere per sempre con il seno, producendo “l’effetto donna barbuta del circo” ogni volta che, questo, si trova in contesti sociali? Decreterebbe, forse, che i medici che hanno condotto questa donna a diventare uomo si son sbagliati, imponendo di assumere estrogeni per tornare come prima? Quali competenze ha un giudice del genere per valutare se far procedere o meno una persona transessuale nel percorso di transizione?
Richiedere una verifica, inutile, a spese della persona transessuale, riguardo il lavoro fatto da medici statali non è transfobia?
Poi c’è l’ultimo grave atto di violenza sociale. Ad oggi, sono state autorizzate persone al cambiamento dei documenti solo a seguito di avvenuta sterilizzazione per rimozione chirurgica degli organi genitali, maschili per le MtF o femminili per gli FtM, ad esclusione di un unico caso dove, però, la sentenza sottolinea che anni di terapia con androcur (il farmaco che, oltre ad abbassare i livelli di testosterone, distrugge le cellule testicolari) sono ragionevolmente sufficienti per essere sterile.
Non è transfobia costringere una persona alla sterilizzazione? Non è transfobia negare il cambio di documenti, ad inizio terapia, costringendo le persone transessuali ad anni di stigma sociale, in una società che lo stato non educa alle diversità? Non è transfobia far firmare un consenso informato che ci avvisa della probabile sterilità, data dalla terapia ormonale, invece di indicarci come conservare i gameti?
Ecco qua la transfobia legalizzata, quella continua violenza psicologica ed esclusione sociale prodotta dal nostro stato menefreghista, perpetuata ai danni del gruppo dei e delle transessuali. Prima, ci nega la dignità di aver documenti conformi al nostro essere, rendendo difficoltoso l’accesso al lavoro e amplificando lo stigma sociale di tutte quelle persone che incrociano i nostri documenti. Poi, vestendo la toga di un giudice, decide se autorizzare o meno un chirurgo ad intervenire sul nostro corpo. Infine, nei panni di una giurisprudenza basata sul pregiudizio, ci costringe ad essere sterilizzati per adeguare i documenti, anche se non sentiamo la necessità di sottoporci a chirurgie distruttive.
Il costo di questa violenza, alla faccia della gratuità del percorso, tra terapia, psicologi, relazioni psichiatriche, perizie di parte e spese legali può arrivare anche a 15.000 euro.
Reputo lo Stato primo soggetto da denunciare al varo di una legge che punisca la transfobia, perché colpevole di alimentare la violenza nei nostri confronti quando dovrebbe essere al nostro fianco, come garante della nostra salute.
fonte http://www.intersexioni.it/transfobia-legalizzata/
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