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domenica 23 maggio 2010
Libri Lgbt “Scrittori contro l’omofobia” un’anticipazione
Scrittori contro l’omofobia è un progetto editoriale curato da Massimiliano Palmese che raccoglie saggi e racconti sulla difficile situazione italiana, frutto di vecchi pregiudizi e del vuoto legislativo. Tra i saggisti aderiscono Bolognini, Buffoni, Dall’Orto, Giartosio, Lalli, Quaranta, Romano, mentre tra i narratori Arena, B. Bianchi, Carrino, Insy Lohan, Vaccarello. Il volume vedrà la luce il prossimo anno. Anticipiamo il saggio di Francesco Gnerre “Il coraggio delle parole”.
Perché in Italia è più difficile che altrove l’affermazione della centralità politica e culturale dei diritti dei gay e della lotta all’omofobia? Esiste una responsabilità anche della cultura, in Italia più refrattaria che in altri paesi, ad affrontare questi temi? Un breve excursus sulle censure, le autocensure e i mascheramenti che, negando anche la parola, hanno reso difficile l’elaborazione di una cultura gay e marginale un tema così importante per la democrazia di un paese.
Tra i motivi che fanno dell’Italia uno dei paesi più omofobi d’Europa e uno dei più arretrati in fatto di diritti civili c’è da considerare la responsabilità della cultura che ha la tendenza ad avallare l’atteggiamento ipocrita della separazione tra le parole e le cose, l’abitudine a mascherare ciò che non è conforme alla cultura dominante. Così in Italia si possono avere più famiglie e battersi pubblicamente per l’indissolubilità del matrimonio, si possono avere amanti di ogni orientamento sessuale e proclamare pubblicamente di essere turbati dalla presenza di omosessuali e contrari alle unioni tra persone dello stesso sesso. Insomma la realtà conta poco, quello che conta è la rappresentazione.
Questo aspetto della cultura nazionale ha origini antiche e risale per lo meno alla controriforma cattolica. Scriveva Paolo Sarpi ad un suo amico francese nel 1609: “una maschera sono costretto a portare, per quanto nessuno possa farne a meno, se vive in Italia”. La maschera di cui parla Paolo Sarpi non serviva a coprire comportamenti sessuali, ma atteggiamenti politici e ideologici non conformi al potere allora dominante, ma l’immagine testimonia bene una forma mentis tutta italiana che ai tempi di Paolo Sarpi poteva essere una necessità, ma che poi è diventata una caratteristica del carattere nazionale.
Questa maschera che interessa tanti aspetti della vita, è ovviamente ancora più evidente in tutto ciò che riguarda la sessualità e in particolare l’omosessualità. Su questi temi c’è stata sempre in Italia una acquiescenza alla cultura dominante pubblicamente sessuofobica e omofobica e gli intellettuali hanno sempre sottovalutato la questione omosessuale o l’hanno vista come un problema circoscritto ai soli omosessuali e non, come in altri paesi civili - almeno da quando l’omosessualità è stata derubricata dalle malattie o dalle anomalie psichiche - come un problema di democrazia. Gli stessi omosessuali hanno preferito, e spesso preferiscono ancora, continuare a tenere la maschera e il silenzio ha funzionato sempre come la più efficace forma di repressione.
Tra la metà del diciannovesimo secolo e gli anni dei movimenti di liberazione del Novecento, nel periodo della medicalizzazione dell’omosessualità e dell’emergere in varie forme del tema anche nella letteratura, l’interdizione e la paura hanno interessato certamente anche altri paesi europei e si è diffuso tra gli intellettuali quello che la studiosa Eve Kosofsky Sedgwick ha definito Homosexual Panic.
Altrove però ci sono stati anche, per fare solo qualche nome, André Gide, Jean Cocteau, Thomas Mann, Marcel Proust o ancora James Baldwin, Christopher Isherwood, Gore Vidal e tanti altri. Perfino gli scandali legati all’omosessualità hanno favorito l’emergere della questione. Si pensi al processo per sodomia a Oscar Wilde in Gran Bretagna, alla coppia Verlaine - Rimbaud in Francia o agli scandali che coinvolsero tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento l’industriale tedesco Heinrich Krupp o a quelli che videro protagonisti il principe Philipp Zu Eulenburg e il conte Kuno von Moltke con vicende che fecero tremare gli ambienti vicini al kaiser Guglielmo II.
In Italia niente di tutto questo. Pur essendo la meta del turismo gay di mezza Europa, l’Italia non ha conosciuto, fino alla morte di Pasolini - quindi un secolo dopo - nemmeno gli scandali. L’interdizione anche della parola è stata totale, tanto che quando alcuni scrittori hanno provato a rappresentare aspetti legati all’omosessualità sono stati costretti a ricorrere a eufemismi più o meno fantasiosi. Giorgio Bassani scrive che il dottor Fadigati, il protagonista de “Gli occhiali d’oro”, era ‘così’, era di ‘quelli’, i personaggi omosessuali di Natalia Ginzburg sono degli ‘eccentrici’, Vasco Pratolini in “Il Quartiere” parla di un non meglio precisato ‘vizio’ o di ‘natura corrotta’, Alberto Moravia a proposito del protagonista de “Il conformista” parla di ‘anormalità’ e in “Agostino” l’omosessuale adulto, Saro, è il pervertito libidinoso; dell’altro, più giovane, si dice semplicemente che ‘va’ con Saro. E gli scrittori più coinvolti personalmente, da Palazzeschi a Saba a Comisso e a tanti altri, hanno dovuto escogitare strategie di mascheramenti o sono stati costretti a confrontarsi con censure e autocensure molto più coercitive che in altri paesi.
Lo stesso Pasolini che non ha mai avuto dubbi sulla sua omosessualità, quando negli anni Quaranta del Novecento si decide a confessare in una drammatica lettera la sua omosessualità ad una donna che è innamorata di lui, parla di vita “ferocemente privata, intima, la cui inconfessabilità mi aveva fatto comportare con te in modo tanto poco virile e onesto”, aggiunge di voler finalmente “essere esplicito”, ma la parola omosessualità rimane difficile da pronunciare e per dirlo deve ricorrere a lunghe e faticose perifrasi.
L’Homosexual Panic in Italia è così molto più forte e rimane pressoché inalterato anche quando negli anni Settanta del Novecento altrove comincia il processo di superamento della paura e si fa strada l’idea di una cultura rivendicativa anche attraverso la scrittura letteraria che dà origine alla cosiddetta letteratura gay, un concetto che in Italia non ha mai avuto molta fortuna. Quando nel 1975 muore assassinato Pier Paolo Pasolini, il suo amico Alberto Moravia scrive: “chi era, che cercava Pasolini? In principio, c’è stata, perché non ammetterlo? L’omosessualità, intesa però alla stessa maniera dell’eterosessualità, come rapporto con il reale, come il filo di Arianna nel labirinto della vita”. Che intendeva dire lo scrittore? Che gli omosessuali che non sono Pasolini non hanno alcun rapporto con la realtà?
Negli anni Settanta, il nascente movimento di liberazione omosessuale in Italia si deve confrontare così con una situazione molto più difficile che altrove, col muro di gomma di una cultura refrattaria e con diffidenze inimmaginabili in altri paesi, dove paradossalmente l’esistenza di una legislazione discriminatoria favorisce l’aggregazione e la conseguente nascita di una comunità gay che, accanto a iniziative strettamente politiche, promuove un nuovo immaginario legato alla sessualità e all’omosessualità anche attraverso la letteratura e promuove un coinvolgimento culturale generale che a poco a poco contribuisce a creare un clima favorevole alle istanze di emancipazione.
In Italia i pochi libri che rappresentano l’omosessualità in maniera nuova rispetto allo stereotipo pre-Stonewall del malato da commiserare o del corruttore nascono all’interno dell’esiguo movimento di liberazione, rimangono clandestini e non entrano nel circuito letterario ufficiale. Nemmeno il più importante di questi libri, “Elementi di critica omosessuale” di Mario Mieli, un saggio che è anche un interessante testo letterario per l’inedito accostamento del linguaggio accademico con modalità espressive “gaie” e provocatorie, riesce a intaccare la totale refrattarietà della cultura ufficiale. Un’edizione ridotta degli Elementi, tradotta in inglese, è studiata e apprezzata fino a diventare un testo di riferimento per gli studi successivi della queer theory, ma in Italia Mario Mieli rimane un nome noto solo all’interno del movimento d liberazione omosessuale.
Le nuove istanze di libertà di quegli anni in Italia arrivano come attutite e guardate con sospetto. Si pubblica qualche libro rimasto per decenni ben conservato nell’ombra di qualche biblioteca come “I Neoplatonici” di Luigi Settembrini o nei cassetti degli scrittori come “Ernesto” di Umberto Saba, o già pubblicati all’estero come “Fabrizio Lupo” di Carlo Coccioli, ma né “I Neoplatonici”, ambientato nell’antica Grecia e che l’autore presenta come traduzione dal greco, né Ernesto, che rappresenta l’educazione sentimentale e sessuale di un ragazzo alla fine dell’Ottocento a Trieste, né le elucubrazioni religiose di Coccioli rappresentano la nuova realtà gay. Si resta così, nonostante la novità di questi libri, nell’ambito dell’eccezionale e dello straordinario, in realtà lontane e particolari, che poco hanno a che vedere con il vissuto dei gay come si viene delineando in quegli anni. Anche l’accoglienza che questi libri ricevono è una prova ulteriore della reticenza, dell’imbarazzo dell’establishement culturale.
Se si consultano le recensioni apparse sulla stampa colpiscono i tentativi di tenere fuori questi libri dal vissuto omosessuale degli autori e dalla drammatica esperienza di repressione e si cerca di collocarli in un’aria rarefatta di “grazia” e di “classicità”.
Perfino uno scrittore più giovane e più immerso nella realtà gay come Pier Vittorio Tondelli, che rappresenta tutti i fermenti del movimento di liberazione omosessuale, quando tocca con mano che per essere in Italia uno scrittore di successo deve rassegnarsi a tenere un profilo basso, si adegua e fa di tutto per evitare la cosiddetta “ghettizzazione”.
Il suo esempio è seguito dalla maggior parte degli scrittori che sono venuti dopo che esprimono spesso fastidio di fronte a qualsiasi forma di “militanza”, rinunciando in questo modo a farsi portavoce di reali istanze di liberazione.
Un libro francese, recentemente tradotto in Italia, curato da Jean Le Bitoux, uno dei fondatori del Fhar (Fronte omosessuale di azione rivoluzionaria) nel 1971, giornalista e militante, raccoglie una serie di interviste degli anni Settanta e Ottanta sul tema della liberazione gay a personaggi della cultura come Jean Paul Sartre, Michel Foucault, Daniel Guerin. In Italia in quegli anni gli intellettuali gay o fingevano di non esserlo o stavano ben attenti a non lasciarsi sfiorare dalle istanze del movimento per paura di “ghettizzarsi” e quelli non gay o scrivevano ermetici sillogismi alla Moravia o parlavano, ancora in anni più vicini a noi, del “dramma dell’omosessualità”, come certi interventi a dir poco scandalosi sulle pagine culturali di La Repubblica di Cesare Garboli che molti ricordano.
Leggendo oggi le interviste di Le Bitoux che in quegli anni promuovevano dibattiti culturali di portata generale, si capisce bene attraverso quale percorso si è arrivati all’affermazione culturale e legale dei diritti glbt in Francia, mentre in Italia si tratta di discorsi di là da venire.
E così altrove, dove c’è stata una reale trasformazione culturale, essere omosessuale comincia veramente a non avere più alcuna rilevanza e si può essere omosessuale e primo ministro come in Islanda, omosessuale e sindaco di una grande città come a Parigi o a Berlino, omosessuale e vice cancelliere come in Germania, senza scandalo alcuno.
In Italia essere omosessuale è considerata ancora una caratteristica che è meglio non far emergere troppo (per una forma di omofobia interiorizzata, per non inimicarsi qualche amico cardinale o per paura di pregiudicare la propria carriera), o addirittura un’infamia da nascondere come dimostrano il “caso Marrazzo” e il “caso Boffo” che hanno appassionato in maniera volgare la stampa italiana tra la fine del 2009 e gli inizi del 2010 senza che né gli interessati, né i loro amici intellettuali abbiano avuto il coraggio di far cadere finalmente la maschera dell’ipocrisia.
fonte napoligaypress
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