Quando muore una persona che ha lasciato
un’impronta forte sul mondo, chi resta tende a voler condividere la sua
personale esperienza con questa, come a sottolineare – a meno che non
si tratti di un mero gesto narcisistico nel volersi accostare a qualcuno
di famoso – quante vite abbia toccato chi ci ha lasciate, e come le
abbia influenzate.
Delia Vaccarello, giornalista, scrittrice, docente, attivista, palermitana nata nel 1960 e morta la notte scorsa di un cancro che nonostante la lunga lotta alla fine non le ha lasciato tregua, fu un’eroina della mia tarda adolescenza.
Io, lesbica di provincia purtroppo ancora in the closet col grosso del
mio mondo sociale, vedevo la mia identità sancita grazie al lavoro
prezioso di questa donna. Vaccarello, infatti, curò per anni la rubrica Un, due, tre, liberi tutti, che usciva di lunedì, ogni 15 giorni, sulle pagine dell’Unità.
Era una convalida che arrivava, oltretutto, dal quotidiano del partito,
che mio padre considerava sacro, quindi a maggior ragione
significativa.
La rubrica iniziò nella seconda metà degli anni ’90 come
spazio in cui parlare genericamente di diritti civili. Erano altri
tempi, lei stessa, allora, non era dichiarata esplicitamente, ma il
linguaggio che usava era preciso e innovativo. Quel foglio col tempo
divenne più esplicitamente dedicato al mondo LGBT+, che allora non
avremmo nemmeno chiamato così, probabilmente adottando un molto meno
inclusivo «gay e lesbico».
Nel 2003, mentre accompagnavo un’amica nella sua città natale dopo un suo lutto, scoprii in stazione la raccolta Principesse azzurre, fresca di stampa, che mi distrasse durante quel lungo viaggio. Ne curò, negli anni a venire, diversi volumi.
Oggi quelle storie ci farebbero sorridere, per lo più, ma con internet
ancora molto lento e Netflix ancora da venire, erano la prima
pubblicazione per lesbiche di una casa editrice mainstream, la
Mondadori, e costituirono un momento importante: tutte li
leggevano, non solo le appassionate di letteratura, agognando a veder
rappresentati positivamente i proprio amori, cosa nel 2003 ancora molto
rara.
Nel 2010 pubblicò, sempre per Mondadori, Evviva la neve, il
racconto di alcune transizioni di genere, occupandosi anche in quel
caso in modo pionieristico di questo tema nell’editoria di massa.
La ritrovai docente alla mia Scuola di giornalismo nel 2013,
finalmente incontrandola di persona, e presentandomi con: «Ciao, sono
Elisa, la lesbica della classe». Preparatissima, all’inizio del suo
seminario sciorinò le sue pubblicazioni, gli editori, i premi
giornalistici vinti. Io capivo che non lo faceva per vantarsene, ma per
farsi rispettare da quel manipolo di ragazzi per lo più talentuosi ma
anche eterosessisti e molto arroganti, convinti di sapere già tutto del
mondo.
Un ultimo incontro avvenne a
fine 2014, quando entrambe vestimmo i panni della formatrice a un corso
di aggiornamento per giornalisti sui temi LGBT+, per me era la
prima volta, per lei la milionesima. Anche in quell’occasione portò con
sé Lacan, cagnolino adottato che le era inseparabile.
Delia Vaccarello è morta, il mondo LGBT+ è più povero.
Grazie di tutto, Delia.
fonte: di Elisa Manici http://lafalla.cassero.it/
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martedì 1 ottobre 2019
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