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mercoledì 5 maggio 2010
Lgbt, Mondo Queer-il documentario-la musica al cinema.
Nell’invasione di manuali e manualetti, storici e teorici, di argomento cinematografico che rappresentano ormai il grosso della “ricerca” (tra molte virgolette) universitaria e non, il nuovo libro di Pier Maria Bocchi, Mondo Queer – Cinema e militanza gay (Lindau, pp. 214, 19 euro), piomba come un oggetto curioso: perché, ben lontano dall’essere una storia del cinema a tematica omosessuale, è soprattutto un libro di “idee”, al limite del pamphlet, molto critico, spesso arrabbiato, in cui l’autore, approfittando della polisemia del termine queer, si concede numerose deviazioni in territori che con il cinema omosessuale (e poi solo al maschile) c’entrano poco, almeno all’apparenza. Si tratta, più esattamente, di una raccolta di saggi (ma ordinati secondo un precisa progressione interna), costruiti attorno a interrogativi di ordine diverso (estetico, politico, culturale etc.) tenuti insieme dal costante riferimento agli “schermi velati” (per usare il titolo del celebre volume di Russo sul cinema omosessuale) e dall’intreccio tra analisi filmica e contesto. Il primo, per esempio (La militanza matrigna) tratteggia con lucidità gli “errori di prospettiva della critica queer”, come recita il sottotitolo, scavando i molti sensi di etichette ricorrenti nel dibattito sul cinema e la cultura omosessuale: come queer, appunto, ma anche camp, trash e pop: gioco di “insiemistica” in cui Bocchi ha di mira la critica all’autoghettizzazione e il rinnovamento di tali etichette nella prospettiva di una “sensibilità sociale e politica queer”. Ricerca difficile, poiché gli schematismi, le facilonerie interpretative e il “politicamente corretto” rischiano sempre di appiattire il senso, travisare il valore politico del cinema gay e concedere facili esultanze sia alla cultura queer, sia alle pieghe omofobiche della società. Il problema, come emerge a poco a poco, che è del critico e dello storico prima ancora che dello spettatore, ha dunque a che fare con la giusta relazione tra “contenuto”, condizione sociale dell’omosessualità e immagine cinematografica: approccio culturologico (e del resto il volume è nutrito soprattutto di studi americani e “all’americana”) che rappresenta già di per sé una decisa novità nell’ambito della ricerca italiana e che risulta particolarmente prezioso per (ri)disegnare limiti e prospettive d’ambito. Bocchi, del resto, non si limita mai a parlare solo di cinema: l’inquadramento è sempre più vasto, e il cinema diventa semmai un luogo (magari emblematico) in cui si manifestano le contraddizioni della cultura queer contemporanea, come mette acutamente in luce l’ultimo capitolo, dedicato allo stereotipo e soprattutto al suo “buon uso”: “come dovrebbe fare la critica cinematografica – si chiede l’autore – per individuare un buon film gay? Cioè: un film gay che possiede degli stereotipi, o si sviluppa attraverso di essi, è sempre e comunque un cattivo film gay?”. La differenza tra “un film che usa degli stereotipi” e “un film stereotipato” è sottile ma fondamentale; ed ecco allora una rassegna delle grandi figure del cinema gay (drag queen, adolescenti, il gay macho, quello debole e vessato e quello militante…) dove Bocchi a volte sorprende, “bocciando” certi paladini (Jarman) e promuovendo magari piccoli film o serie televisive che però, in modo forse più silenzioso o “locale”, hanno contribuito a far bene il loro “lavoro”. Che, riassumendo un po’, dovrebbe coincidere soprattutto con l’affermazione di una diversità: queer, alla fine, persi per strada tanti altri significati, suggerisce soprattutto questo. Essere diversi, contro l’omologazione imposta dalla cultura dominante e suggerita dalle debolezze e dalla miopia della stessa cultura gay.
DUE MANUALI: Il documentario e La musica al cinema
Continua, presso l’editore Lindau, la pubblicazione degli “strumenti” editi originariamente nella collana dei Cahiers du cinéma. Dopo il punto di vista, l’inquadratura, il montaggio e il cinema d’animazione, escono adesso quelli dedicati al documentario e alla musica. Si tratta, come sempre, di piccoli manuali contenuti nelle cento pagine, stesi da docenti universitari e divisi equamente tra riflessione teorica e analisi. Scritto da Jean Breschand, quello sul documentario (“L’altra faccia del cinema”, recita il sottotitolo), si apre con un breve ma efficace inquadramento storico (“Le origini del documentario”) in cui, a poco a poco, vengono a disegnarsi tre orientamenti attraverso cui questo particolare “genere” (che però, in effetti, è più correttamente un’altra “faccia”) è stato pensato e praticato a partire dagli anni Venti, quando il termine diventa di uso comune per giungere fino a noi. Il primo orientamento riunisce quei registi che “fanno del documentario il luogo di una presa di coscienza del mondo, dei suoi molteplici livelli di realtà come né le attualità, troppo ellittiche, né la finzione, troppo artificiale, riescono a mostrare agli spettatori”; il secondo è interpretato, al contrario, da coloro che “considerano la macchina da presa come un dispositivo di percezione che li avvicina a un’esperienza poetica del mondo” mentre il terzo identifica una serie di autori che, spesso sulla base di un’opzione politica ben definita, intendono il documentario come “un mezzo per arrivare sperimentalmente a nuove rappresentazioni”. Le tre opzioni, non solo compresenti lungo tutta la storia del cinema ma talvolta sovrapposte nello stesso autore, identificano alla fine tre diverse storie – comunicanti – nate con la scoperta delle possibilità e potenzialità “documentarie” dell’immagine cinematografica. Una bussola preziosa per aggirarsi, senza farsi strangolare dalle definizioni, nella molteplicità di forme e opzioni stilistiche e ideologiche assunte da questo genere fino a oggi, passando per il cinema diretto e il cinema verità, l’uso propagandistico e quello, più vicino ai giorni nostri, “privato” (i film di famiglia). Preziosa, come sempre in questo tipo di volumi, la seconda parte di “documenti, testimonianze, testi, analisi delle inquadrature”, a cui si perdona volentieri una prospettiva un po’ troppo “francesecentrica”. Opere di Marker, Philibert, Cavalier, Depardon e Morin, tra gli altri, vengono sottoposte a brevi ma illuminanti analisi, chiuse da una rassegna di scritti teorici. Completa il volume una bibliografia aggiornata. Stessa struttura per il volume di Gilles Mouëllic su La musica al cinema. Per ascoltare un film. Prima parte storica, veloce e originale, con molti esempi tratti anche dal cinema contemporaneo (Godard, Lynch, Coppola). Al percorso storico si intreccia quello semantico, destinato a presentare i molteplici usi che sono stati fatti, di volta in volta, della musica al cinema, distinta, secondo la definizione di Chion, tra musica “da buca” (quella extra-diegetica) e musica “da schermo” (diegetica). Semantica del suono musicale che l’autore associa poi, utilmente, ai “fondamentali” del linguaggio cinematografico (montaggio, inquadratura, ritmo…), muovendosi nell’analisi tra usi “industriali” e usi “autoriali”. Nella parte di testi e documenti, l’unicum dei “diari” di Paul Fosse per il Gaumont-Palace, un’analisi di Luci della città, le note di Resnais per Toute la mémoire du monde e, naturalmente, Fino all’ultimo respiro di Godard.
fonte tribe
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