Inside art incontra Melania Mazzucco, al centro di furiose polemiche per la lettura del suo ultimo romanzo al liceo Giulio Cesare di Roma. L’ultima opera di Melania Mazzucco Sei come sei, edita da Einaudi, è finita al centro di una bufera.
I docenti del liceo romano Giulio Cesare hanno fatto leggere e commentare agli studenti un passo del libro, per sensibilizzarli al tema dell’amore omosessuale, centrale nella storia, e per questo hanno subito un esposto da parte dei genitori e minacce di denuncia per corruzione di minorenni.
Come considera il fatto avvenuto ai professori del Giulio Cesare e le accuse di oscenità e pornografia rivolte al suo romanzo da parte delle associazioni Giuristi per la vita e Pro vita onlus? «Leggere romanzi che parlano di cose reali e di temi anche complessi della nostra vita non ha mai corrotto nessuno. Il compito di un romanzo è anche quello di far riflettere sul mondo che ci circonda. A meno che non si voglia mettere in discussione il diritto di considerare i ragazzi delle persone capaci di intendere e di volere, e di formarsi delle opinioni. Dare loro gli strumenti per capire il mondo e se stessi – anche con un libro: è proprio questo che significa svolgere correttamente il proprio mestiere di insegnanti».
”Ciò che ci rende diversi dagli altri può salvarci” scrive nel libro, in cui torna sul rapporto tra genitori e figli, in questo caso tra l’adolescente Eva e i suoi due padri omosessuali. Come è nato il romanzo? «Volevo raccontare una famiglia diversa, ma allo stesso tempo uguale; rappresentare un legame tra un padre e una figlia non legati dal sangue, ma dall’amore, riflettere sul senso della paternità, se nasce solo dalle radici e dal sangue, oppure è anche una volontà».
I nomi dei protagonisti sono paradigmatici: Eva, Giose e Christian. Voleva conferire un valore archetipico alla storia? «Eva è la figlia dell’uomo. Ho sempre negli occhi La creazione di Eva di Michelangelo nella Sistina, un’immagine iconica. Eva nasce dalla carne di Adamo. Il tema del rapporto col padre l’ ho declinato in tante storie.Vita è stato il viaggio nella famiglia di mio padre, ricostruendo la storia della mia generazione maschile, fino a mio nonno».
Avere un padre scrittore è stato una difficoltà o uno sprone? «Non è stato un problema, perché ho perso mio padre molto presto, non ci siamo mai confrontati, non ha mai letto le mie cose. Sellerio ha pubblicato I sicari di Trastevere, l’unico suo romanzo, perché era autore di teatro, dunque siamo stati in libreria insieme: l’unico momento in cui due generazioni così lontane, separate dalla morte, si sono incontrate. Per me altrimenti papà è l’infanzia».
Cos’ è l’ispirazione? «È una scintilla. Gli scrittori considerano il libro un essere vivente, usano metafore organiche per descriverne il concepimento. Per me è un’impollinazione, casuale, non si sa cosa la porti, può essere il vento, una cometa. Arriva, ti si pianta dentro e poi matura. Può farla emergere un libro, un personaggio che ti dice qualcosa, come m’ è capitato con Annemarie Schwarzenbach: (scrittrice, fotografa e giornalista svizzera) avevo letto poco di lei, nell’autobiografia di Klaus Mann. Era citata solo come l’amica Annemarie, ma mi sono detta ”voglio sapere chi è”. A volte può parlarti un luogo in cui percepisci familiarità, e allora ci ambienti qualcosa, oppure un personaggio immaginario nasce e si sviluppa nelle parti più segrete di te, nella memoria».
Considerando il suo amore per l’arte a ispirarla può essere anche un quadro? «Assolutamente, come accadde con La presentazione di Maria al tempio di Tintoretto, il mio maestro, conosciuto ai tempi dell’università. Entrai nella chiesa della Madonna dell’orto di Venezia per caso, di lui sapevo appena quello che si studia a scuola. Mi colpì la straordinaria sensibilità per la narrazione, mi interessava la sua riflessione sulle donne e scoprii che ebbe una figlia pittrice. Fu l’ incontro che ha preceduto tutto: da allora ho scoperto molto di lui e di me, è iniziato un viaggio che non finirà mai».
Scrivere è un esercizio di memoria personale per lei?
«Da ragazzina, per desiderio di imitazione e perché vivevo circondata da scrittori, attori, gente di teatro, fu naturale passare dal leggere le storie al raccontarle e poi a scriverle. Crescere con uno scrittore significa anche capire quanto si è fragili, nudi, senza difese. Pensavo di fare altro nella vita, ma a 25 anni sentii il dovere di essere quella che sono e ne accettai le conseguenze, iniziando a pubblicare».
Quali sono i soggetti dell’iconografia d’arte a lei più cari?
«Quelli citati nelle Metamorfosi di Ovidio, la mia Bibbia, il nostro immaginario amoroso è tutto rappresentato lì. Mi interessano tutte le combinazioni d’amore che racconta, dèi che si innamorano di mortali, trasformazioni, capricci, contaminazioni. Ci sono tutte le contraddizioni e la libertà sfrenata dell’amore. Amo Leda e il cigno, anche per il fatto intrigante che se ne rimpiangono i quadri misteriosamente perduti, come quello di Caravaggio, o vari lavori di Leonardo».
I miti della letteratura che preferisce?
«Mi sono formata coi romanzi dell’Ottocento e Novecento, ma ciò che m’ha dato un’idea del racconto sta già nell’Odissea, in particolare in un verso che mi segnò molto: “Tu canti come se ci fossi stato”. Uno scrittore deve fare “come se ci fosse stato”, così come ho scritto Limbo, pur non essendo mai stata in guerra in Afghanistan».
Ci descrive la sua bottega artistica?
«Non ho riti particolari, sono la contraddizione vivente del principio di Virginia Woolf, non ho mai sentito l’esigenza di una stanza tutta per me, scrivo pure in una camera con persone che magari sentono musica, mentre io preferirei il silenzio. Quando entro nel mio libro io sono lì, ho scritto pure in treno, con intorno gente al cellulare. Non ho orari, dipende dalla vita. Quando sono pienamente nel libro quello diventa il mio centro e non faccio altro».
Quando non scrive cosa fa? «Ho molte passioni, sono onnivora. Ad esempio curo una rubrica di storia dell’arte, tengo seminari, viaggio, cerco altre esperienze di vita».
I suoi musei preferiti? «Mi piacciono le case degli artisti, a Parigi adoro il Museo Gustave Moreau, perché è nel suo atelier, ci sono le opere che non ha venduto e preferito tenere per sé, disegni, mobili, acquarelli e altri oggetti comprati. Anche le case degli scrittori sono belle. Non mi piacciono i musei dei Re: grandi nostri musei sono frutto di collezioni imperiali o reali, nati non da scelte di gusto personale, ma per ostentare e possedere. A Parigi c’è la collezione Jacquemart-André, il museo di un collezionista in cui ci sono molte Madonne col bambino, che era il tema preferito suo e della moglie, e si percepisce che le hanno prese perché a loro dicevano qualcosa. Così come volevo che il mio Museo del mondo, in uscita per Einaudi, dicesse qualcosa non solo della bellezza delle opere scelte ma anche del mio gusto e di un’idea del mondo».
Il San Giuseppe con Gesù bambino di Francisco Herrera il vecchio è un quadro importante nel romanzo Sei come sei, ci racconta perché?
«In una scena cruciale Giose ( il padre non biologico) ha la rivelazione del suo desiderio di paternità, proprio stando di fronte a questo quadro di un pittore spagnolo del ’600. Lo amo perché è pittore capace di grandi asprezze, senza paura di commuovere e di essere vero. Al Museo di Budapest, vedendolo, rimasi turbata, perché nel nostro immaginario Giuseppe è uomo anziano, calvo, canuto, spesso curvo e non ha mai un rapporto fisico col bambino. Giuseppe non ha generato e non deve evocare la virilità per non turbare lo spettatore. Non è così nella tradizione spagnola, in cui è giovane e bello, un padre che prende fra le braccia Gesù, anche se nel quadro il bimbo e’ biondo, a indicare che non sono dello stesso sangue. Il quadro esprime grande amore ma anche il presagio della morte di Gesù, attraverso la corona che tiene in mano. Una tela struggente, che suggerisce l’impotenza di un genitore, che non può garantire protezione assoluta ai figli».
Come cambia la vita con un Premio Strega? «Ero molto giovane, non me lo sarei aspettato a 36 anni. È una grande responsabilità, un tempo ci si arrivava quasi sempre a fine carriera, come un’incoronazione, subito mi sono detta “lo meriterò?”. Ho studiato Storia della letteratura moderna e contemporanea, con tesi su Paolo Volponi, l’unico a vincere lo Strega due volte, sapevo bene cosa era questo premio dagli autori che studiavo: Elsa Morante, Natalia Ginzburg, e gli altri erano entrati nella storia con quel premio e sentirmi parte di questa catena è bello. Avevo già un legame coi miei lettori, ma dopo ho vissuto un terremoto, essere nelle classifiche è un grande amplificatore».
Quali sono le sue grandi scrittrici di riferimento? «Si salta sempre la generazioni delle madri, con cui generalmente si è più in conflitto, e si scelgono le nonne, quindi amo Elsa Morante, Maria Bellonci per il suo lavoro sulla storia , Anna Banti per il suo rapporto tra pittura e prosa e il tentativo di raccontare anche il contemporaneo e il Risorgimento italiano, poi Sibilla Aleramo, centrale per l’ emancipazione e per ciò che ha subito dalla società letteraria italiana, una specie di monito per noi donne».
Lei ha studiato sceneggiatura al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, ma vedendo il suo romanzo Un giorno perfetto diventare film cosa ha provato? «Bisogna sapersi separare dalle proprie opere per affidarle a chi fa cinema o teatro. La trasposizione non toglie nulla al romanzo perché quello resta, anzi bisogna dargli altre possibilità. Io non intervengo sul lavoro del regista, perché voglio che chi prende in mano una mia storia la senta propria».
FONTE http://insideart.eu/ di Chiara Crialesi
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mercoledì 7 maggio 2014
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