giovedì 12 novembre 2020

IL BLOG: “La regina degli scacchi” è il “Rocky” delle donne pensanti

Una miniserie da sette da guardare. C’è qualcosa di meglio, di più forte e inclusivo, di una Wonder Woman senza superpoteri? Ph: Netflix

Il titolo italiano, “La regina degli scacchi”, non è di quelli che allettino i renitenti alla scacchiera. 

Persino più scoraggiante suona il titolo originale, “The Queen’s Gambit”, riferito a un’apertura di gioco da manuale. Eppure questa miniserie in sette episodi che dal 23 ottobre impera su Netflix è diventata il ‘caso’ dell’anno.

La critica Usa, “Time” in primis, osanna unanime questo ‘prestige drama’ che resuscita la good tv, la tv di qualità. E che ci consegna una Wonder Woman a misura di un’era di segregazione virale come la nostra: né prodezze acrobatiche né effetti speciali, solo un prodigioso talento per un gioco indoor tradizionalmente dominato dai maschi. La sintesi più felice non è farina mia: “La regina degli scacchi” è il “Rocky” delle donne pensanti.

Era una sfida ambiziosa quella di conquistare le platee non-scacchiste all’eroina del romanzo breve di Walter Tevis, uscito nel 1983. Dopo Michael Apted e Bernardo Bertolucci, Heath Ledger si era candidato a portarlo sullo schermo. Non ci è riuscito, e sappiamo perché.  Ma la serialità offre possibilità di scavo psicologico precluse ai tempi brevi del cinema, e difficilmente le attrici opzionate negli anni - Molly Ringwald ed Ellen Page- avrebbero reso iconica la ragazza-prodigio Beth Harmon con l’impatto magnetico di Anya Taylor-Joy (sconosciuta ai più ma per poco, la vedremo nella nuova trasposizione di “Emma”, da Jane Austen).

Contano certo i talenti scomodati dal regista e sceneggiatore Scott Frank per cesellare atmosfere e dettagli, la consulenza eminente di Gary Kasparov, un production designer stellare come Uli Hanish, il mago di “Babylon Berlin”. Ma conta molto di più l’intensità umana del racconto: “c’è il mondo intero in 64 caselle”, come dice Beth-Anya, che nella miseria di un orfanatrofio del Kentucky trova tra torri, alfieri e pedoni il suo rifugio e la sua ossessione, il suo strumento di rabbia e riscatto.

Tra la fine degli anni ’50, con Harmon bimbetta chiusa e solitaria, e la fine degli anni ’60, con l’approdo al supremo torneo dei Grandi Maestri mondiali da campionessa strepitosamente abbigliata ‘d’epoca’ dal costumista Gabriele Binder, assistiamo a una metamorfosi sbalorditiva. Ma non è la fiaba di Cenerentola, non ci sono fate né principi, solo conflitto e competizione e dipendenza, dai tranquillanti propinati a manetta in orfanatrofio e dall’alcool ereditato dalla mamma adottiva. La conquista del trono è lastricata di perdite. La solitudine dei numeri primi?

In questa storia i padri scappano, tutti, e le madri restano, ma non sopravvivono abbastanza per essere casa, affetto, sicurezza. Il solo a svolgere il ruolo di padre è lo scontroso custode dell’orfanatrofio (Bill Camp). Spiando il suo passatempo segreto, in cantina, la ragazzina impara a sognare. E a vincere, anche se suderà sangue prima di poter ottenere  una scacchiera tutta sua. E’ una nerd povera ed emarginata, un genio femmina con una strada tutta in salita in uno sport di primedonne rigorosamente maschili. C’è qualcosa di meglio, di più forte e inclusivo, di una Wonder Woman senza superpoteri?

E’ l’intensità fuori norma di Anya Taylor-Joy a rendere palpitanti anche i lunghi silenzi delle partite. E un esercizio divertente per i cinefili è riconoscere tra gli sfidanti di Beth Harmon ( e compagni di strada e di letto, in seguito ) ex baby-attori cresciuti come Harry Melling, studente di magia con Harry Potter nella saga, e come il Thomas Brodie-Sangster di “Love Actually”e de “Il Trono di Spade”.

Mi sono bevuta “La regina degli scacchi” da binge-watcher, sette episodi tutti d’un fiato. Non mi chiedevo se avrebbe davvero scalato una vetta preclusa alle donne, la risposta è già nel titolo. Il focus non è il successo, è il come, il perché, i prezzi che paghi. Ma se un ‘prestige drama’ ha il pregio speciale di dispensarci da una seconda, una terza, e chissà quante altre stagioni di comodo sfruttamento, allora, e solo allora, evviva, è veramente perfetto. O dovrei dire : dà scacco matto ?

fonte: Teresa Marchesi   Journalist and filmmaker  www.huffingtonpost.it

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