Un corpo e un letto. Nient’altro. Un corpo
rannicchiato, devastato, tumefatto, profanato. I muri spogli di una
cella. Sbarre pesanti, colori lividi. E un corpo: corpo che soffre,
corpo che rantola, corpo che muore. Sulla mia pelle
– il film di Alessio Cremonini ispirato alla tragica vicenda di Stefano
Cucchi, il giovane romano arrestato per detenzione e spaccio di
stupefacenti e deceduto in carcere, in circostanze ancora non del tutto
chiare, nell’ottobre del 2009 – è prima di tutto questo: un’asciutta e
dolente ricognizione sul mistero e lo strazio di un corpo che muore.
Come già Michael Fassbender in Hunger (2008)
di Steve McQueen, Alessandro Borghi fa del suo corpo scarnificato e
ulcerato lo strumento espressivo attraverso cui il cinema si fa mondo,
storia, tragedia, emozione. Un dimagrimento forzato che lo
porta a perdere una ventina di chili in poche settimane. Un lavoro
mimetico quasi da Actor’s Studio che lo immerge a poco a poco nella
postura, nei tic, nella lingua e nelle ossessioni della persona “vera” a
cui deve ridare vita. Ma poi, soprattutto, un corpo a corpo con sè
stesso per entrare davvero nella testa e nella psiche di un trentenne
arrestato dai carabinieri una sera d’autunno e ferocemente stritolato
dai gangli kafkiani di un sistema giudiziario attraversato da una vena
incomprensibile di violenza sorda e cieca.
Alessandro Borghi cuce Cucchi sulla sua pelle.
Se lo tatua addosso. Si taglia i capelli come li portava lui. Fa un
lavoro incredibile sulla lingua che a poco a poco si spappola e si
spegne: da metà film in poi, sdraiato sulla branda della sua cella, su
un tavolaccio o su una barella, rannicchiato in posizione fetale,
atterrito da chiunque gli si avvicini, Borghi/Cucchi non parla più:
sibila, mugola, biascica, rantola, mormora.
Deriva del
linguaggio, naufragio del senso. Solo con un altro detenuto recluso
nella cella di fronte Stefano riesce a dialogare. Ma noi questo
interlocutore non lo vediamo mai. Forse non esiste. Forse è solo il
parto dell’immaginazione di un uomo solo, umiliato, pestato, che non
riesce più a muoversi, a pisciare, a parlare, e che sente incredulo e
attonito l’appressarsi della morte. Ed è proprio questo che colpisce e
graffia e commuove nel film di Cremonini: non la denuncia (che non
c’è…), non il calvario (nella storia di Cucchi non c’è alcuna
redenzione, nulla di cristologico), non la lotta (Cucchi non è il Bobby
Sands di Michael Fassbender che sceglie deliberatamente di morire).
A colpire, e a colpire duro, è piuttosto
l’ammutolita messinscena della morte che arriva. La rappresentazione di
un corpo che sente, che oscuramente avverte l’avvicinarsi della morte. Immobile,
livido, tumefatto, Borghi trasforma la sua faccia in una
maschera/smorfia che ricorda certi volti espressionisticamente devastati
dell’arte contemporanea: ma più Giacometti che Munch, perché
Stefano/Borghi non urla, non protesta. Rifiuta le cure. Sente i suoi
occhi incrostati ridursi a fessure. Sente di perdere i contatti col
mondo. Sente la vita che va via. E lui non reagisce. Lascia che le cose
accadano. Lascia che la morte arrivi, fatale.
È questo che sconvolge. Questo che fa di Sulla mia pelle un
film che va ben oltre il caso di cronaca che lo ha ispirato: il fatto
che racconta e mette in scena un silente e devastante appressamento
della morte.
Tutto il resto passa in secondo piano: le
polemiche, le discussioni sulla veridicità e attendibilità della
ricostruzione, le battaglie sulle modalità di distribuzione del film.
Questioni serie, certo. Ma a condizione che non offuschino la cosa più
importante: la sobrietà, il rigore, la misura della messinscena di
Alessio Cremonini (avete notato la forza del pianosequenza di tre minuti
e mezzo nella scena dell’arresto?) e l’intensità commovente
dell’interpretazione di Alessandro Borghi. Che ci fa vedere sul suo
corpo, come poche altre volte abbiamo visto al cinema, il mistero
irresolubile del vivere e del morire.
fonte: Articolo di Gianni Canova per https://welovecinema.it
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