mercoledì 29 dicembre 2010

"RITRATTO D'ARTISTA" PER LISADELGRECO_COREOGRAFI: MARIO PIAZZA, IL 3 GENNAIO A ROMA CON IL SUO "SCHIACCIANOCI" CONTEMPORANEO


Lo “Schiaccianoci” contemporaneo firmato da Mario Piazza
In scena a gennaio, all’Auditorium Conciliazione a Roma, il suo Schiaccianoci post-moderno di grande suggestione con atmosfere contaminate da videogame, installazioni e toni noir alla Hitchcock.

«La danza contemporanea è contaminazione, cultura e tecnica»

Un grande artista per uno spettacolo-evento che, da quattro anni, registra un notevole riscontro di critica e di pubblico.

Lui è Mario Piazza,
coreografo e regista de “Lo Schiaccianoci” che apre il 2011, nel magnifico spazio dell’Auditorium Conciliazione a Roma dove, dal 3 al 6 gennaio, vanno in scena ben quattro repliche con protagonisti gli splendidi danzatori del Balletto di Roma.

Nel giro di pochi anni, lo spettacolo è diventato un vero e proprio ‘cult’ regolarmente riproposto e riapplaudito con entusiasmo dagli spettatori.

Una pièce di grande suggestione con atmosfere contaminate da videogame, installazioni e toni noir alla Hitchcock.
E ancora una rivisitazione in chiave contemporanea di un grande classico della coreografia, uno Schiaccianoci nuovo per il Balletto di Roma, sul nuovo libretto di Riccardo Reim.

Mario Piazza, come nasce il suo “Schiaccianoci” post-moderno che ha debuttato nel 2006? Quale idea ha cercato di sviluppare?

«Ho lavorato sul romanzo di E.T.A. Hoffman e sulla partitura musicale di Peter Ilic Cajkosvkij, per costruire uno spettacolo di grande intensità in cui s’intrecciano sogno, realtà e mondo virtuale.

Senza tradire la tradizione dell’incantata atmosfera natalizia popolata da bambini e giocattoli, gatti e topi, Fata Confetto e Principe Azzurro, ho voluto proporre un’interessante lettura contemporanea della malinconica fiaba: monitor emblemi dell’inganno del virtuale che entra nel quotidiano, simboli di un pericolo che diventa incubo, di una realtà disorganica più che attuale nella nostra società.

Il balletto diventa specchio fedele delle generazioni odierne, precocemente private dell’infanzia e ingannate da falsi miti proposti da abili ingannatori che vendono sogni e modelli virtuali».

Il suo finale lascia ben sperare…?

«Malgrado le angosce di questo annullamento di confini tra reale e virtuale, alla fine prevalgono i toni fiabeschi e il classico happy end.
Sarà un racconto a lieto a fine, specchio fedele di una generazione che si nutre di violenze quotidiane, di una tv che ha spettacolarizzato la morte, la guerra.

Si osserva tutto con incomprensibile indolenza percorsi da un mal di vivere così tipico della fanciullezza».

Lei è considerato uno dei maggiori talenti creativi della danza contemporanea, tanto che la critica internazionale lo ha persino definito il “Roberto Benigni della danza” per l’esemplare balletto “Ghetto”, su musiche Klezmer e di Goran Bregovic, che parla del destino degli ebrei, offrendo una rilettura dell’argomento come nel film “La vita è bella” (ndr, spettacolo ricompensato dalla European Association for Jewish Culture di Londra con un premio per le Performing Arts).

Il 2010 è stata un anno prolifico e ricco di successi, iniziato con il debutto con l’Opera da Tre Soldi di Bertolt Brecht al Teatro Filarmonico di Verona. Cosa ha significato per lei trascrivere e interpretare in danza quest’opera?

«Ho cercato di ritrovare l’integrità dello scritto, tradotto in linguaggio coreografico e rappresentarlo al fine di esprimerne l’intensità con l’ausilio del genio musicale di Kurt Weill.

L’Opera da Tre Soldi è stata creata, con piglio ironico e polemico, negli anni del declino della repubblica di Weimar, quando la radicalizzazione di classe era spinta a tali estremi che le sovrastrutture crollavano e i congegni, motori della società, si mostravano in tutta la loro efferatezza.

Il testo di Brecht mi ha stimolato a trovare l’essenziale di quest’opera. Come un pittore stabilisce i punti di forza sulla tela, ho voluto con un segno coreografico contemporaneo cogliere tutta la drammaticità ma anche l’ironia espresse dall’autore».

In marzo, al teatro Nazionale di Roma, è stata la volta di “Tango Viola – La Sera”, una nuova coreografia per il corpo di ballo del Teatro dell’Opera che ha reso omaggio agli enfants terribles del secolo scorso con lo spettacolo “The bad boys of piano”, con le musiche al pianoforte di Daniele Lombardi. Qual è stato il suo sforzo maggiore?

«Quello di produrre una perfetta fusione di musica, movimento, contenuti e interpretazioni in una scena resa particolarmente dinamica e innovativa anche dal gioco di luci, colori e video.

Ho creato una coinvolgente coreografia, densa di chiaroscuri e di intense letture “in movimento” del magnifico testo dannunziano, con intrecci drammaturgici dal segno danzato. Il punto di forza di questa coreografia è l’ideale prolungamento del corpo, in cui ogni più piccola parte, dalle ossa ai tendini, dai muscoli ai nervi, cerca di assecondare e allinearsi con la musica di Casavola e la prosa di D’Annunzio.

Sul trapezio invisibile delle umane emozioni ho cercato di inventare nuovi acrobatismi e nuove letture di quel magnifico testo che mi ha ispirato».

Lei ha saputo imporsi con il suo stile forte e particolare, una miscela esplosiva in cui confluiscono la danza, il teatro, il cinema, il canto e le arti figurative. La danza contemporanea per lei è…?

«È contaminazione, è cultura, è tecnica. Durante il mio percorso artistico ho cercato di sviluppare uno stile forte, combinando le teorie della contemporary dance apprese negli Stati Uniti con la tradizione europea.

Il risultato finale è un lavoro particolare che, forse, è apprezzato proprio per questo. È un modo nuovo di fare danza contemporanea che non ha nulla a che fare con ciò che era già stato fatto, perché va oltre: è già una rinascita.

Definisco la mia danza “New Rinascimento”, perché è una fusione della gestualità dei popoli latini che diventa così una sorta di “mudra”, ossia movimento danzante».

D. Facciamo un salto indietro, sino alla sua formazione oltreoceano. Come ha iniziato?

«Sono nato a Montreal (Canada), nel 1959, da immigrati italiani. Mio padre era ebreo e per dimenticare le brutture della seconda guerra mondiale decise di emigrare nel 1956. Sin da piccolo sono stato educato all’amore per le arti, grazie a mia madre che era cantante e a mio padre, un grande collezionista e mercante d’arte.

Mi sono formato studiando canto, pittura e ginnastica artistica finché, all’età di diciannove anni, mi sono avvicinato alla danza classica sotto la guida di Susanna Egri e Perti Virtanen. Mi è piaciuta e, così, ho iniziato a girare il mondo per specializzarmi in danza contemporanea: a New York, sono entrato alla Alvin Ailey e Martha Graham School, mentre a Parigi, ho preso lezioni da Peter Goos e Carolyn Carlson.

Poi, ho danzato in compagnie italiane e internazionali, fra cui quelle di E. Cosimi, Momix di Moses Pendleton e la Lindsay Kemp Company. Ho avuto l’opportunità anche di essere danzatore ospite in coreografie di M. Van Hoecke, F. Strachon, L. Kemp».

Da ballerino a coreografo. Quando ha esordito?

«Nel 1987, creando “Tempus fugit” e l’anno successivo, con “Traviata, une adventure dans le mal” insieme a Evgheni Polyakov. In seguito, ho allestito “A Selene”, “Baby doll” e “Batmos”. Sin dagli esordi ho ricevuto vari riconoscimenti, ben dieci, fra cui il Prix Volinine, concorso coreografico internazionale di Parigi, il premio per le “Performing Arts” dell’European Association for Jewish Culture di Londra, il premio G. Tani per la danza contemporanea al Teatro dell’Opera di Roma e il premio “Buona Fortuna” della Rai».

Cosa l’ha spinta poi, a ricercare la collaborazione di altri danzatori importanti?

«La necessità di confrontarmi e di ricevere nuovi preziosi stimoli per approfondire ed elaborare un mio stile. Nel 1993, insieme a Ludovic Party, ho fondato la compagnia Mario Piazza, presentando delicati lavori di teatrodanza come “Claustrum”, “Beatitudinis” (1993), “Kaffe-kantate” (1994) e “Charlie danza Charlot” (1995).

Negli spettacoli, creati e presentati nei principali appuntamenti italiani, vengono superati i confini tra le tecniche moderne della danza e le teorie che ruotano attorno al teatrodanza, o forse sarebbe meglio dire danzateatro, proponendo un linguaggio legato alle miracolose alchimie tra cinema, teatro, danza, canto e arti figurative.

Dopo vari anni e tanti lavori, ho chiuso la compagnia perché non riuscivo più a conciliare l’essere coreografo con l’essere direttore. Sono molto affezionato allo spettacolo “Ghetto”, realizzato per il Teatro Opera di Belgrado, con musica di Klezmer».

Nel 1995 è diventato membro della giuria del Prix Volinine di Parigi e, contemporaneamente, è stato invitato a una conferenza dell’Unesco. Dopo tante creazioni per enti lirici, compagnie italiane e straniere, televisioni, è infine approdato al cinema…

«Sì, era il mio sogno di sempre… Nel 2004, ho curato le coreografie dei film di Diego Ronsisvalle, “Le grandi dame di casa d’Este” e “Il potere sottile”, presentato alla Biennale Cinema di Venezia con protagonisti Ludovic Party e altri trenta danzatori.

Poi è stata la volta di “Eleonora d’Aragona”, di “Isabella Morra” e di “Matilde di Canossa” dell’Istituto Luce - Cinecittà».
fonte ufficio stampa Mario piazza
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