Amy Winehouse durante il suo show Florianopolis, Brasile
La 27enne cantante trovata morta in casa a Londra per sospetta overdose
Una vecchia casa di mattoni a Camden Square, due piani eleganti, un ingresso signorile bianco e un cancello nero come la notte. Poco dopo le quattro pomeridiane arrivano di corsa due ambulanze, il personale medico scende con l’urgenza consueta, ma l’agitazione dura un pugno di secondi, non ci vuole molto a capire che per la donna che trovano all’interno non c’è nulla da fare.
Gli abitanti della stretta via di Londra Nord immaginano cosa sia successo, magari se lo aspettavano, eppure solo quando parla la polizia la notizia diventa ufficiale. Amy Winehouse, una delle più belle voci della musica moderna, il genio sregolato di Back to Black, è morta in circostanze «non spiegate» che tutti immaginano.
Aveva 27 anni, capelli corvini, un look oltraggioso, tatuaggi irreverenti da camionista e un’ugola divina, senza dimenticare qualche avaria di comportamento che da tempo l’aveva lasciata in balia di alcol e droga. Ad appena vent’anni era diventata una star, elogiata per una voce che scomodava paragoni eccellenti, da Aretha Franklin a Sarah Vaughan, talenti neri che sfidava con una storia bianca di inglese nata in una famiglia di origine ebraica, figlia d’un tassista e una farmacista.
Frank, il suo primo album, aveva venduto in pochi mesi un milione di copie.
Back to Black (2006), seconda magnifica prova di fusione fra nuovo e vecchio, di soul e r’n’b rivisitati, le dava il successo planetario. La fine dell’inizio. E l’inizio della fine.
Vallo a spiegare alla folla di fan che si è rapidamente assiepata sotto la sua casa, che Amy è morta perché bruciata dal successo, perché il troppo dà la scossa. Sono ragazzini, molti giovanissimi, facce da sognatori che portano fiori e orsacchiotti e faticano a capire come si fa a buttare al vento le possibilità di una bella vita, fama e denaro.
«Overdose», dicono le indiscrezioni della serata, senza sorprendere. Farmaci e alcol. Un’esistenza bruciata che aveva mostrato la sua faccia peggiore il 18 giugno, quando la Winehouse era stata fischiata a Belgrado, nel primo concerto di una tournée di ritorno sulle scena subito cancellata. Non cantava. Non andava a tempo. Era ubriaca davanti a 200 mila persone che avevano pagato 40 euro per vederla.
L’ultima apparizione è stata mercoledì, all’iTunes Festival di Londra, dove è salita a far da sponsor a Dionne Bromfield, ha saluto il pubblico e ha rifiutato di cantare. Era chiaro che la lunga cura di riabilitazione che l’aveva tenuta per tre anni fuori dai palcoscenici non aveva dato l’esito auspicato.
Lontane le emozioni della notte di fine giugno 2008 quando sedusse il pubblico di Hyde Park cantando per il compleanno di Nelson Mandela con Annie Lennox, i Simple Minds e Zucchero. La personalità si manteneva instabile, il mondo privato in permanente rivoluzione ispirava gli stili (anche Lagerfeld per una sfilata di Chanel) e poi distruggeva tutto. Un matrimonio estremo durato un lampo. Un intervento di chirurgia plastica per regalarsi un seno vistoso di cui andava orgogliosa, come una Betty Boop in stile trash.
«Quando beve è totalmente fuori controllo - ha raccontato un conoscente -, tre volte in una settimana era ubriaca da perdere i sensi». «Hanno cercato di mandarmi in riabilitazione, ma ho detto “no”», cantava Amy in un brano, Rehab, che adesso diventa la sua marcia funebre. «Io sono una persona poco sicura di sé - aveva confessato - Dubito della mia apparenza, e più ho dubbi e più bevo». Ieri ha buttato già troppo liquido e troppe pastiglie, più di quanto il suo piccolo corpo potesse sopportare. Così ha lasciato questa vita per entrare in una nuova tutta nuova che è cominciata poco dopo l’annuncio della sua morte.
È impazzito Twitter, affollato da una parata di star che hanno espresso le condoglianza in tempo reale. L’attrice Demi Moore. Sophie Brown, moglie dell’ex premier Gordon. La cantante e attrice Kelly Osbourne. Migliaia di altri, famosi e no. La disgrazia ha fatto il giro del mondo.
Il padre è rientrato dal volo da New York, dove doveva suonare al Blue Note. «E’ meglio bruciare che svanire», aveva scritto Kurt Cobain (citando Neil Young) prima di ammazzarsi, pure lui a 27 anni, nel 1994. Una storia drammatica, e già vista.
Con l’inevitabile ingresso nella leggenda delle sette notte moltiplicato in forma digitale su facebook & Co. che non rende alcun onore ad Amy, una stella divina cancellata dall’incapacità di essere all’altezza di sè stessa.
fonte www3.lastampa.it di MARCO ZATTERIN
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