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martedì 27 luglio 2010
Musica Lgbt, Il ritorno di Sting "Sono un classico e voglio la Scala" e canta un testo sulla condizione delle transessuali.
Vecchie hit con una nuova orchestra sinfonica
Sting è, senza dubbio, uno dei «Rock Big Five» in attività. Una star che da oltre tre decenni, con i Police o da solo, calca i palcoscenici cercando di innovare e, per quanto possibile, rinnovare un patrimonio di canzoni da classifica davvero notevole. Martedì scorso è uscito sulla prestigiosa etichetta «classica» Deutsche Grammophon il cd Symphonicities anticipato dalla stranota «Every Little Thing she does it’s Magic».
Il titolo è evocativo per i fan che non scordano l’album dei Police Syncronicity (1983) che lanciò Sting, Stewart Copeland e Andy Summer nella stratosfera delle sette note.
Dunque Sting, che a Natale aveva pubblicato un album di carole concepito tra le mura del suo borgo di Figline Valdarno, ora spariglia e abbraccia la musica sinfonica facendo riarrangiare in chiave rock-classica dodici delle sue più belle canzoni, insieme a 45 elementi della Royal Philharmonic Concert Orchestra.
C’è anche una serata «live» (27 canzoni scelte fra una quarantina di hit), partita per il giro del mondo e talmente entusiasmante che i 18 mila spettatori, sabato, del Ravinia Festival di Chicago hanno applaudito sino a spellarsi le mani.
Questo festival, poco noto dalle nostre parti, è nato 105 anni fa. «In Europa il Ravinia non se lo fila nessuno - dice Sting, incontrato la mattina successiva al fianco della moglie Trudy Styler, e capace di sfoggiare un ottimo italiano - ma negli Stati Uniti è un’istituzione.
Questo pubblico è piuttosto conservatore e far passare gli arrangiamenti, che ho messo nelle mani del maestro Steven Mercurio - che ha diretto Bocelli e Pavarotti - David Hartley e Rob Mathes, è stata una bella vittoria».
Al fianco dell’artista, i collaboratori che negli anni hanno soppiantato Copeland e Summer. Come sempre, alla chitarra c’è Dominic Miller, che Sting considera il suo braccio destro, alle percussioni Rhani Krija e David Cossin, Ira Coleman è un ottimo contrabbasso mentre la vocalist australiana Jo Lawry è definita dal leader «tanto brava da essere diventata la mia protetta».
Sting, un’altra sfida. Un giro del mondo che comincia in America e la porterà in Italia in inverno.
«Una sfida iniziata quando, nel 2008, collaborai con la Chicago Symphony Orchestra e poi con la Philadelphia Orchestra. La rielaborazione in chiave classica di alcuni brani del mio repertorio mi fece venire la voglia di Symphonicities. Volevo che l’orchestra suonasse come una rockband. E ci siamo riusciti».
Nel disco ci sono «solo» 12 canzoni ma ne avete registrate molte di più. Ci sarà un Symphonicities 2?
«Nella vita cerco di non ripetermi mai. È vero, di canzoni ne abbiamo registrate molte ma un seguito non ci sarà. Le terremo per il nostro ascolto personale».
Fingiamo di crederle. Perché la scelta di un direttore come Steven Mercurio?
«Mi è stato consigliato da Bocelli e dal mio amico flautista Andrea Griminelli. Lo avete visto? Quando dirige, Mercurio diventa un ballerino, una rockstar, si dimena. Il fatto che da ragazzo è stato un chitarrista rock me lo ha reso ancor più simpatico».
In concerto lei canta Tomorrow Will See con un testo sulla condizione delle transessuali.
«Uguale a quella di tutte le minoranze considerate “maledette”. Mi pongo spesso la domanda: e se ne panni di quella persona “diversa” ci fossi io? Come mi comporterei? Come vorrei che la gente mi guardasse? Da lì è venuta l’ispirazione per questa parte di testo: mentre sto qui sul marciapiede questi tacchi alti mi ammazzano / non ti chiedo come ti vesti / tu non mi chiedere perché metto questa minigonna. Batto per vivere e questa è la mia vita».
Quando è salito sul palco l’ammirazione delle signore presenti per la sua forma fisica era evidente. Eppure gli anni passano. Come fa?
«Due ore di bicicletta e un po’ di yoga tutti i giorni. È parte del mio lavoro. Da ragazzo sono stato un centometrista e facevo salto triplo. Ho sempre amato il fitness ma ammetto: cinquanta per cento è disciplina, l’altro cinquanta vanità».
Con lo scorso disco dedicato a Dowland stava per riuscire a suonare alla Scala.
Questo tour a Milano andrà agli Arcimboldi. Con la Scala ci riproverà?
«L’abbiamo già fatto, per adesso la risposta è picche. La Scala è sempre occupata ma io non mollo. Prima o poi...»
Tignoso. Un po’ come il ct della sua nazionale, Fabio Capello.
«Lasci stare Capello. Ha fatto giocare l’Inghilterra così male che ho seguito la Coppa del Mondo solo quando siamo usciti. Eravamo inguardabili e la colpa è del ct».
Che l’Inghilterra ha riconfermato.
«Nessuno è perfetto».
fonte lastampa.it LUCA DONDONI CHICAGO
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