Una storia d'amore senza frontiere che apre il dibattito ma non scende mai sotto la superficie.
Recensione di Tommaso Tocci
A Raqqa, nella Siria del 2011, il giovane Sam è innamorato di Abeer, che lo ricambia ma sembra riluttante. L'entusiasmo di Sam nel chiedere la mano della ragazza è mal ricompensato da una soffiata alle autorità che lo mette nei guai per propaganda rivoluzionaria. Sam fugge così in Libano, mentre Abeer finisce in Belgio, sposata con un ricco diplomatico. Passano gli anni, Sam si arrangia come può, ma le circostanze economiche e politiche non gli consentono di raggiungere l'Europa per un tentativo disperato di ribadire il suo amore. Finché l'incontro casuale con un artista, che vuole tatuargli la schiena per farne un'opera d'arte vivente, non cambia le carte in tavola.
La regista tunisina Kaouther Ben Hania mescola una storia d'amore senza frontiere con la blanda provocazione di una satira sul mondo dell'arte, il tutto premendo sul nervo scoperto della crisi dei rifugiati. Un tema attuale che mette alla berlina il privilegio occidentale, ed europeo in particolare, attraverso il simbolo di una schiena tatuata con un visto che permette l'ingresso nell'area Schengen.
Un uomo in difficoltà diventa
quindi arte in carne e ossa, con il film di Ben Hania a sottolineare
esplicitamente come la circolazione degli oggetti di consumo sia più
facile, nella nostra epoca, di quella delle persone. Lo spunto viene da
una trovata simile dell'artista belga Wim Delvoye, che nel 2006 ha
davvero tatuato una sua opera sulla schiena di un uomo, obbligandolo per
contratto a "posare" nei musei e a farsi asportare un pezzo di pelle
alla sua morte per consegnarla al compratore.
Adattata sul grande schermo, la schiena è quella magnetica di Yahya
Mahayni, che fa un piccolo miracolo nel tenere insieme i molti toni,
spesso divergenti, del film. Lo fa non solo con la schiena, che pure è
ovviamente centrale, ma con tutto il corpo - organismo sinuoso e
vibrante che passa dal sacrificale al tracotante.
A contendersene l'umanità c'è una schiera di personaggi che, un po' come tutto L'uomo che vendette la sua pelle,
risultano posticci e superficiali, e purtroppo ben oltre le intenzioni
degli autori. Da una bionda Monica Bellucci all'artista interpretato dal
belga Koen De Bouw, tutti rimangono intrappolati in una satira dalle
basi traballanti, mai nemmeno così sostenuta come in opere che ne
facevano il loro fulcro (The Square di Ostlund o Animali notturni di Tom Ford).
Non può esserlo perché la regia
ben consapevole di Ben Hania deve spesso tornare al paradosso
principale, che misura la libertà umana in base ai passaporti e al
controllo della propria pelle.
Certamente suggestivo e capace di provocare il dibattito (caratteristica
che ha regalato al film anche una candidatura agli Oscar), ma solo ed
esclusivamente a un livello ben più epidermico di qualunque tatuaggio.
fonte: Recensione di Tommaso Tocci www.mymovies.it
Nessun commento:
Posta un commento