venerdì 8 novembre 2019

Pierre Cardin in mostra a Brooklyn: il futuro era ieri

Il Brooklyn Museum celebra con Pierre Cardin, l’autore più conosciuto della «moda spaziale», una tendenza che non mai ha avuto un riscontro reale. Anche se ha anticipato l’era digitale. 

In foto: Pierre Cardin indossa la tuta da astronauta dell’Apollo 11

La storia di Pierre Cardin fa capire che non sempre il futuro si avvera per come viene immaginato ma il potere dell’immaginazione produce estetiche che segnano il presente in cui nascono. 

La moda, che tra le creatività si lascia influenzare facilmente dai cambiamenti dei tempi, spesso allunga lo sguardo oltre il prevedibile consentito. È successo, ad esempio, all’alba degli anni sessanta quando, esaurita la spinta del dopoguerra con il New Look di Christian Dior nel 1947 e del rinnovamento degli anni cinquanta, culture giovanili e prerivoluzionarie hanno portato alla nascita degli «anni pop» e, al loro interno, del movimento della Space Age.

Un percorso ben visibile nella mostra Pierre Cardin: Future Fashion al Brooklyn Museum di New York fino al 5 gennaio 2020 che, primo omaggio al créateur di origini italiane dopo 40 anni, ripercorre la storia di questo innovatore relegato come il creatore della moda spaziale e, invece, ha fatto molto altro, come i costumi per il cinema e il teatro (è stato compagno per quattro anni anche di Jeanne Moreau), futuristici mobili di design tuttora in produzione e diversi progetti di architettura.

L’esposizione di questo museo newyorkese, che si sta rivelando tra i più attenti a legare la moda, le celebrazioni e l’analisi dei fenomeni raccontandoli in contesti complessivi, è quindi un’occasione per rileggere un fenomeno epocale, sia pure attraverso i 170 abiti, oggetti di design, immagini e invenzioni di Pierre Costante Cardin, nato a San Biagio di Callalta (Treviso) il 22 luglio 1922.
Pierre Cardin: Future Fashion è stata volutamente inaugurata lo scorso 20 luglio nello stesso giorno in cui 50 anni prima Neil Alden Armstrong e Edwin Buzz Aldrin scendevano dal modulo Eagle e toccavano la superficie della Luna mentre il collega Michael Collins li aspettava nella navicella Apollo 11. Avrebbero anche potuto inaugurarla due giorni dopo per non «bucare» il 97esimo compleanno del protagonista che, però, sarebbe stato assente in ogni caso perché l’inventore della moda spaziale ha sempre odiato volare (ma forse la retrospettiva, dopo un tour in Asia, arriverà a Parigi dove Cardin potrà festeggiare i suoi 100 anni).

Curata da Matthew Yokobosky, Senior Curator of Fashion and Material Culture del Brooklyn Museum, la mostra quindi analizza una visione che in realtà nasceva più da una speranza che da una previsione, quella conquista spaziale che avrebbe dovuto sconvolgere per sempre l’aspetto degli umani abitanti del nostro pianeta a partire dal loro abbigliamento per cui, nell’attesa sia di incontri ravvicinati con i cugini extraterrestri sia di trasferimenti dalle città terrestri a quelle di Luna e di Marte, occorreva un nuovo modo di vestire, con forme e materiali nuovi.

La Space Age della moda quindi nasce da questo improvviso bisogno di allargare l’orizzonte e lo spazio vitale. Cardin, che da giovane nell’atelier di Dior aveva partecipato alla nascita della rivoluzione del New Look e che Pierre Bergé aveva convinto a lavorare per il cinema, si trova pronto per pensare al nuovo in modo molto audace e, presa la forma di un classico miniabito smanicato degli anni Sessanta, la trasforma con un tessuto sintetico per ottenere una superficie tridimensionale e inventa «la mode cosmonaute». È il 1965 e Cardin manda in passerella una collezione intitolata Cosmos dedicata a Edward Higgins White, astronauta precursore che poche settimane prima era uscito dalla sua gemini 4 per una passeggiata nello spazio (perderà la vita due anni dopo nel tragico incidente dell’Apollo 1 a Cape Canaveral).

La Nasa, il programma Apollo, il Sessantotto imminente, la guerra fredda che infiamma i tifosi dell’Urss contro quelli Usa (superpotenze in lotta anche per il dominio dello spazio) il pop, il beat e il rock che formano la colonna sonora mentre i creatori di moda accendono la loro immaginazione e trasformano i loro sogni in realtà cucite con tessuti argentati o pvc, acrilico, metallizzati
e luccicanti in lurex o altro derivato degli idrocarburi, cioè del petrolio. Gli accessori fanno il resto: caschi trasparenti usati come cappelli, visiere in pvc che sostituiscono gli occhiali da sole, i capelli seguono la forma dell’uno e dell’altro (infatti il taglio che va per la maggiore si chiama «a caschetto» e ha la frangia che mima una visiera).

Certo, Cardin non è da solo. Viene giudicato troppo d’avanguardia ma può contare in fiancheggiatori di puro lignaggio: nel 1964 André Courrège aveva già presentato la sua Moon Girl, collezione in cui per la prima volta convivono tessuti in cashmere mischiati con plastica, vinile, pvc e nylon, gli abiti sono squarciati da oblò che mettono in mostra buona parte del corpo, minigonne inguinali. E non va dimenticato Paco Rabanne, che interpreta lo spirito del tempo con abiti di metallo ma che lo spazio lo disegna nel 1968 addosso a Jane Fonda per il film Barbarella che il regista Roger Vadim ambienta in un futuro lontanissimo, nel 40.000 d.C. 
In foto: Tre modelli di Pagoda Jacket in pelle della collezione Pierre Cardin 1979

Il fenomeno, però, non si restringe a Parigi, allora unica capitale della moda, perché da Londra un bravissimo ma non conosciuto al grande pubblico stilista inglese Hardy Amies disegna i costumi per 2001 Odissea nello Spazio, il film in cui Stanley Kubrick immagina l’intelligenza artificiale, che per l’epoca rappresenta l’inimmaginabile, e Hardy declina al futuro il più puro stile londinese anni Sessanta (il processo creativo, molto interessante, lo si può trovare nel documentario, rarissimo, Stanley Kubrick and Hardy Amies: when Fashion and Future collide).

La mostra, quindi, è anche un momento di riflessione che fa capire come si può anche immaginare un futuro che non si verifica nelle forme e nei modi pensati, ma che quella fuga in avanti non era del tutto sbagliata. In fondo, il touch screen dell’era digitale nasce proprio da lì.
fonte:  di Michele Ciavarella https://style.corriere.it

Nessun commento:

Posta un commento