Il Brooklyn Museum celebra con Pierre Cardin, l’autore più conosciuto della «moda spaziale», una tendenza che non mai ha avuto un riscontro reale. Anche se ha anticipato l’era digitale.
In foto: Pierre Cardin indossa la tuta da astronauta dell’Apollo 11
La storia di Pierre Cardin fa capire
che non sempre il futuro si avvera per come viene immaginato ma il
potere dell’immaginazione produce estetiche che segnano il presente in
cui nascono.
La moda, che tra le creatività si lascia influenzare
facilmente dai cambiamenti dei tempi, spesso allunga lo sguardo oltre il prevedibile consentito. È successo, ad esempio, all’alba degli anni sessanta
quando, esaurita la spinta del dopoguerra con il New Look di Christian
Dior nel 1947 e del rinnovamento degli anni cinquanta, culture giovanili
e prerivoluzionarie hanno portato alla nascita degli «anni pop» e, al
loro interno, del movimento della Space Age.
Un percorso ben visibile nella mostra Pierre Cardin: Future Fashion al Brooklyn Museum di New York fino al 5 gennaio 2020
che, primo omaggio al créateur di origini italiane dopo 40 anni,
ripercorre la storia di questo innovatore relegato come il creatore
della moda spaziale e, invece, ha fatto molto altro, come i costumi per
il cinema e il teatro (è stato compagno per quattro anni anche di Jeanne
Moreau), futuristici mobili di design tuttora in produzione e diversi
progetti di architettura.
L’esposizione di questo museo
newyorkese, che si sta rivelando tra i più attenti a legare la moda, le
celebrazioni e l’analisi dei fenomeni raccontandoli in contesti
complessivi, è quindi un’occasione per rileggere un fenomeno epocale,
sia pure attraverso i 170 abiti, oggetti di design, immagini e invenzioni di Pierre Costante Cardin, nato a San Biagio di Callalta (Treviso) il 22 luglio 1922.
Pierre Cardin: Future Fashion è stata volutamente inaugurata lo scorso 20 luglio nello stesso giorno in cui 50 anni prima Neil
Alden Armstrong e Edwin Buzz Aldrin scendevano dal modulo Eagle e
toccavano la superficie della Luna mentre il collega Michael Collins li
aspettava nella navicella Apollo 11. Avrebbero anche potuto
inaugurarla due giorni dopo per non «bucare» il 97esimo compleanno del
protagonista che, però, sarebbe stato assente in ogni caso perché
l’inventore della moda spaziale ha sempre odiato volare (ma forse la
retrospettiva, dopo un tour in Asia, arriverà a Parigi dove Cardin potrà
festeggiare i suoi 100 anni).
Curata da Matthew Yokobosky, Senior Curator of Fashion and Material Culture del Brooklyn Museum, la mostra quindi analizza una visione che in realtà nasceva più da una speranza che da una previsione,
quella conquista spaziale che avrebbe dovuto sconvolgere per sempre
l’aspetto degli umani abitanti del nostro pianeta a partire dal loro
abbigliamento per cui, nell’attesa sia di incontri ravvicinati con i
cugini extraterrestri sia di trasferimenti dalle città terrestri a
quelle di Luna e di Marte, occorreva un nuovo modo di vestire, con forme
e materiali nuovi.
La Space Age della moda quindi nasce da
questo improvviso bisogno di allargare l’orizzonte e lo spazio vitale.
Cardin, che da giovane nell’atelier di Dior aveva partecipato alla
nascita della rivoluzione del New Look e che Pierre Bergé aveva convinto
a lavorare per il cinema, si trova pronto per pensare al nuovo in modo
molto audace e, presa la forma di un classico miniabito smanicato degli
anni Sessanta, la trasforma con un tessuto sintetico per ottenere una superficie tridimensionale e inventa «la mode cosmonaute». È il 1965 e Cardin manda in passerella una collezione intitolata Cosmos
dedicata a Edward Higgins White, astronauta precursore che poche
settimane prima era uscito dalla sua gemini 4 per una passeggiata nello
spazio (perderà la vita due anni dopo nel tragico incidente dell’Apollo 1
a Cape Canaveral).
La Nasa, il programma Apollo, il
Sessantotto imminente, la guerra fredda che infiamma i tifosi dell’Urss
contro quelli Usa (superpotenze in lotta anche per il dominio dello
spazio) il pop, il beat e il rock che formano la colonna sonora mentre i
creatori di moda accendono la loro immaginazione e trasformano i loro
sogni in realtà cucite con tessuti argentati o pvc, acrilico,
metallizzati
e luccicanti in lurex o altro derivato degli idrocarburi, cioè del petrolio. Gli accessori fanno il resto: caschi trasparenti usati come cappelli, visiere in pvc che sostituiscono gli occhiali da sole, i capelli seguono la forma dell’uno e dell’altro (infatti il taglio che va per la maggiore si chiama «a caschetto» e ha la frangia che mima una visiera).
e luccicanti in lurex o altro derivato degli idrocarburi, cioè del petrolio. Gli accessori fanno il resto: caschi trasparenti usati come cappelli, visiere in pvc che sostituiscono gli occhiali da sole, i capelli seguono la forma dell’uno e dell’altro (infatti il taglio che va per la maggiore si chiama «a caschetto» e ha la frangia che mima una visiera).
Certo, Cardin non è da solo. Viene giudicato troppo d’avanguardia ma può contare in fiancheggiatori di puro lignaggio: nel 1964 André Courrège aveva già presentato la sua Moon Girl,
collezione in cui per la prima volta convivono tessuti in cashmere
mischiati con plastica, vinile, pvc e nylon, gli abiti sono squarciati
da oblò che mettono in mostra buona parte del corpo, minigonne
inguinali. E non va dimenticato Paco Rabanne, che interpreta lo spirito del tempo con abiti di metallo ma che lo spazio lo disegna nel 1968 addosso a Jane Fonda per il film Barbarella che il regista Roger Vadim ambienta in un futuro lontanissimo, nel 40.000 d.C.
In foto: Tre modelli di Pagoda Jacket in pelle della collezione Pierre Cardin 1979
Il fenomeno, però, non si restringe a
Parigi, allora unica capitale della moda, perché da Londra un bravissimo
ma non conosciuto al grande pubblico stilista inglese Hardy Amies disegna i costumi per 2001 Odissea nello Spazio, il film in cui Stanley Kubrick
immagina l’intelligenza artificiale, che per l’epoca rappresenta
l’inimmaginabile, e Hardy declina al futuro il più puro stile londinese
anni Sessanta (il processo creativo, molto interessante, lo si può
trovare nel documentario, rarissimo, Stanley Kubrick and Hardy Amies: when Fashion and Future collide).
La mostra, quindi, è anche un momento di riflessione che fa capire come si può anche immaginare un futuro
che non si verifica nelle forme e nei modi pensati, ma che quella fuga
in avanti non era del tutto sbagliata. In fondo, il touch screen
dell’era digitale nasce proprio da lì.
fonte: di Michele Ciavarella https://style.corriere.it
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