lunedì 23 novembre 2020

Aumentano le fashion company nel Diversity Leaders ranking: Hermès, Armani, Prada e Hugo Boss tra le aziende europee più inclusive

Nonostante sia in ritardo rispetto ad altri settori, anche la moda ha iniziato il suo percorso verso la creazione di ambienti di lavoro più inclusivi, con l’inserimento di figure ad hoc e la promozione di valori rispettosi del concetto di diversità.

Ne è la prova la seconda edizione del ranking annuale Diversity Leaders, promosso dal Financial Times con il supporto di Statista, società tedesca leader nel campo delle ricerche di mercato, che da aprile ad agosto 2020 ha intervistato 100mila persone di 15mila imprese con un minimo di 250 dipendenti, setacciando 16 Paesi Europei: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito.

Oltre alle dichiarazioni dei dipendenti - interpellati su come si gestiscono in azienda tematiche relative a età, genere, equità, etnia, disabilità e orientamento sessuale - al fine di perfezionare l’analisi sono stati coinvolti anche i referenti delle risorse umane di ogni società.

Risultato: è stata compilata una graduatoria di 850 realtà europee di diversi ambiti e settori, dove anche la moda è ben rappresentata.

Nella parte alta della classifica troviamo infatti Hermès, che ha conquistato la quinta posizione, facendo un balzo rispetto a un anno fa, quando si era classificato 575esimo su 700.

Subito sotto, al sesto posto, si piazza Giorgio Armani (nella foto la sfilata Spring-Summer 2021), la prima delle 35 aziende italiane a comparire nel ranking.

Interessante notare che nella top 100 entrano Prada, al numero 57, e Hugo Boss, al 97. Ricordiamo che il gruppo milanese proprio recentemente ha arruolato Malika Savell come chief diversity, equity e inclusion officer per il Nord America: un ruolo in realtà trasversale, che vedrà la manager come responsabile dello sviluppo di politiche, strategie e programmi in grado di garantire una rappresentazione di culture e punti di vista diversificati a tutti i livelli dell’azienda.

In rappresentanza dell’Italia nelle prime 100, al 71esimo posto, si trova la beauty company Kiko Milano. Al numero 111 Benetton Group, al 711 il Gruppo Calzedonia.

Tra le 850 aziende più virtuose non compare un colosso come Lvmh, anche se si mettono in evidenza alcuni marchi del gruppo, come Sephora (in 49esima posizione) e Louis Vuitton (in 161esima).

Non riesce a entrare della graduatoria nemmeno il big elvetico Richemont, ma a sua difesa va detto che all’inizio del 2019 ha assunto un director of diversity and inclusion e, secondo voci vicine al dossier, sta piazzando pedine simili nelle aree geografiche e nel management dei marchi che presidia.

Quanto al rivale Kering, casa madre di Gucci, si è classificato al 715esimo posto: l’analisi sottolinea che il gruppo francese ha lavorato con impegno sul gender gap, aumentando il numero di donne nel suo cda, ma ha performance meno brillanti, rispetto per esempio a Hermès e Giorgio Armani, sul fronte “age” e “ethnicity”.

«L’industria del lusso ha fatto passi in avanti significativi – ha commentato Hannah Stoudemire, a.d. della Fashion for All Foundation, un’organizzazione non profit con sede a New York che promuove l’uguaglianza e la diversità nel settore della moda – ma molte aziende non stanno facendo nemmeno il minimo indispensabile».

«Il consiglio – aggiunge – è di affrontare i problemi legati alla diversity a tutti i livelli dell’organizzazione e di creare spazio e budget per un chief cultural officer. Un ruolo che dovrebbe essere obbligatorio in ogni azienda di moda, bellezza e media».

fonte:  a.t.  www.fashionmagazine.it

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