Un commento sulla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europa sul caso Taormina. di (sito)
In occasione della proposta di legge Zan, in questo periodo in esame
alla Camera, si è recentemente sviluppato il dibattito pubblico italiano
sulle discriminazioni e sulla violenza per motivi legati al sesso, al
genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere. L’importanza
di un approfondimento degli strumenti giuridici di contrasto a questi
fenomeni deriva in primo luogo da un esame del dato di realtà: nel
nostro paese gli episodi di discriminazione omo-lesbo-bi-trans-fobici
sono all’ordine del giorno.
In particolare, vi è un ambito nel quale la fisiologica condizione di
disparità tra le parti rende particolarmente odiose e di difficile
repressione queste condotte: si tratta del mondo del lavoro.
Con questo commento si tenterà di accennare ai principali profili
giuridici connessi al fenomeno discriminatorio nel rapporto di lavoro
con particolare riferimento ai lavoratori e alle lavoratrici Lgbtiq
(lesbian, gay, bisexual, transgender, intersex, queer/questioning),
attraverso una breve analisi di una recente sentenza della Corte di
giustizia sulle dichiarazioni omofobe in materia di occupazione e di
lavoro.
Va innanzitutto ricordato che l’orientamento sessuale e il
transessualismo sono stati riconosciuti come criteri di discriminazione
in un momento successivo rispetto ad altri fattori collegati a
condizioni personali, poiché introdotti nell’ordinamento sovranazionale
solo dalla direttiva 2000/78 e recepiti nell’ordinamento italiano con il
decreto legislativo n. 216/2003, sebbene la Corte di giustizia
dell’Unione europea e la Corte europea dei diritti umani avessero già in
precedenza attribuito rilievo e protezione all’identità personale nella
sua dimensione sessuale. Le discriminazioni che riguardano l’ambiente
di lavoro possono avere a oggetto diverse relazioni professionali, tutte
protette dal diritto: la fase pre-assuntiva di accesso all’impiego, le
condizioni di lavoro e la progressione di carriera, la formazione
interna, il licenziamento e le altre cause di risoluzione del rapporto
di lavoro.
Bisogna precisare che deve considerarsi discriminatoria ogni condotta
datoriale che, in ragione dell’orientamento sessuale e/o dell’identità
di genere, si concretizza nell’applicazione di regole diverse a
situazioni comparabili nonché nell’applicazione di regole identiche in
situazioni differenti.
La discriminazione che riguarda l’ambiente di lavoro può essere diretta:
questo accade quando, sulla base del suo orientamento sessuale e/o
della sua identità di genere, una persona è trattata meno favorevolmente
rispetto a un’altra in una situazione simile; oppure indiretta, nel
caso in cui una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente
neutri mettano in posizione di particolare svantaggio i lavoratori e le
lavoratrici Lgbtiq per la sola ragione del loro orientamento sessuale
e/o della loro identità di genere.
La nozione di orientamento sessuale riguarda le relazioni affettive e ha
come oggetto l’insieme di emozioni poste alla base di un rapporto
sentimentale nonché l’attrazione fisico-sessuale nei confronti di
un’altra persona.
L’idea di identità di genere, invece, valorizza la fluidità delle
appartenenze e si riferisce, in particolare, alla percezione che
ciascuna persona ha di sé come uomo e/o donna, che può o meno avere
corrispondenza con il sesso attribuito alla nascita.
Un esempio paradigmatico di discriminazione diretta sul lavoro in
ragione dell’orientamento sessuale è costituito dalla condotta
dell’avvocato Carlo Taormina, sulla quale ha recentemente statuito la
Corte di giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 23 aprile
scorso. Nel corso di un’intervista in un programma radiofonico, l’ex
parlamentare aveva dichiarato di non intendere procedere all’assunzione
di persone omosessuali nel proprio studio legale poiché «turberebbe
l’ambiente, sarebbe una situazione di grande difficoltà», annunciando,
dunque, politiche discriminatorie nella selezione del personale in
ragione dell’orientamento sessuale dei potenziali candidati.
L’associazione Rete Lenford-Avvocatura per i diritti Lgbti ha agito in
giudizio per l’accertamento della violazione, in tale episodio, della
disciplina antidiscriminatoria relativa alle condizioni di accesso
all’occupazione e al lavoro. Il Tribunale di Bergamo ha accolto il
ricorso dell’associazione e la sentenza è stata confermata dalla Corte
d’appello di Brescia: entrambi i giudici hanno stabilito che le
affermazioni dell’avvocato Taormina, per la loro natura, per il loro
contenuto e per il contesto in cui sono state rese, non possono in alcun
modo costituire manifestazione del principio di libera espressione del
pensiero. La libertà di espressione non è, cioè, incondizionata e
assoluta: il suo esercizio deve essere bilanciato con altri diritti e
altre libertà di pari rango quali il diritto alla dignità umana,
all’identità personale (e, segnatamente, all’identità sessuale),
all’uguaglianza e alla libertà personale (in particolare nelle sue
declinazioni di libertà morale e sessuale).
La Cassazione, a cui il soccombente è ricorso, ha sospeso il
procedimento, ritenendo pregiudiziale (e quindi necessaria per la
definizione del giudizio) l’interpretazione del diritto dell’Unione
europea da parte della Corte di giustizia.
Due erano i nodi problematici dal punto di vista del diritto
antidiscriminatorio; essi, invece, sono stati superati dalla Corte di
giustizia.
In primo luogo, non essendo individuabile in questa vicenda una persona
determinata che fosse stata discriminata, si trattava di capire se Rete
Lenford-Avvocatura per i diritti Lgbti, in quanto associazione di
avvocate e avvocati volta alla promozione della cultura Lgbtiq, potesse
considerarsi ente rappresentativo di interessi collettivi, e quindi
essere legittimata ad agire in giudizio per la tutela dei predetti
interessi.
Inoltre, in secondo luogo, la Corte di giustizia è stata chiamata a
pronunciarsi sulla effettività della discriminazione: si può ritenere
violata la direttiva in materia di parità di trattamento in ambito
lavorativo
, anche quando, come all’epoca delle dichiarazioni rese dall’avvocato
Taormina, non si faccia riferimento a una procedura di assunzione
concretamente esistente e in essere in quel momento?
La Corte di giustizia ha risposto in senso affermativo a entrambe le
questioni giuridiche, affermando la legittimazione ad agire in giudizio
di Rete Lenford e stabilendo che le dichiarazioni omofobe relative alla
selezione dei dipendenti costituiscono una discriminazione in materia di
occupazione e di lavoro se rese da chi esercita, o può essere percepito
come capace di esercitare, un’influenza determinante sulla politica di
assunzioni di un datore di lavoro, poiché hanno l’effetto implicito di
inibire future candidature delle persone omosessuali.
Il caso Taormina ci mostra come anche quando le discriminazioni in
ambito lavorativo non hanno risvolti drammatici sulle vittime, o le
vittime non siano addirittura neanche identificabili, questi fenomeni
hanno forti ripercussioni sulla vita delle persone. Il lavoro, infatti,
non rappresenta soltanto il principale strumento attraverso il quale si
ricavano le risorse necessarie per vivere, ma è anche espressione della
propria personalità, identità e delle proprie competenze nonché mezzo di
costruzione di relazioni sociali.
fonte: Francesca Romana Guarnieri www.agoravox.it
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