giovedì 24 giugno 2010

LGBT, IL CORAGGIO DI KASHA


Appare per quello che è: una giovane donna dallo sguardo dolce e forte. Ma, a ben guardare, anche vagamente impaurito. O forse questa impressione è frutto della suggestione che il suo racconto, la sua testimonianza pacata, senza mai alzare la voce ma anzi a tratti riuscendo a sorridere di quanto dice, provoca in chi l'ascolta.

A vederla così, jeans, t-shirt e dreadlocks, Kasha Jacqueline Nabagesera non sembra una donna che da sette anni rischia la sua incolumità perché uno dei pochissimi volti pubblici di FARUG (Freedom and Roam Uganda ), organizzazione lesbica, bisessuale, transgender e intersex ugandese. Un'organizzazione semi clandestina, visto che in Uganda l'omosessualità è illegale. È un reato, da punire con l'ergastolo se “colti in flagranza di atto sessuale”, come Kasha spiega con un sorriso. “Noi finora ci siamo salvate perché abbiamo trovato una scappatoia: visto che la legge dice che va punito solo chi è colto in flagranza di atto omosessuale, noi riusciamo a parlare, a muoverci, a continuare la nostra lotta anche a viso aperto”.

Ma gli abusi da parte della polizia o i soprusi, tentati e spesso purtroppo riusciti, da parte di semplici cittadini, sono un rischio costante. A rischiare sono soprattutto Kasha e le altre due-tre sue colleghe che hanno avuto il coraggio di metterci la faccia. O che ci sono state costrette, quando alcuni anni fa la stampa ugandese ha parlato per la prima volta di un gruppo di lesbiche che si riuniva in un determinato bar di Kampala, la capitale. Lo scandalo fu immediato. E le conseguenze pure, in positivo e in negativo. Da un lato, infatti, l'essere uscite allo scoperto ha permesso alle ragazze di FARUG di parlare (e lottare) più apertamente. Dall'altro però le ha costrette a trovarsi un altro posto dove incontrarsi, a nascondersi, anche per evitare gli uomini che le aspettavano fuori dal solito bar, con l'intento di linciarle o, peggio, di stuprarle per “curarle” della loro omosessualità.

Come una ragazza di 23 anni abbia deciso di passare all'attivismo e alla lotta per i diritti di gay, lesbiche, bisessuali e transgender, rischiando così tanto in prima persona, è molto semplice. Quantomeno per come lo racconta Kasha. “Fino a 23 anni”, ci dice, “ho vissuto apertamente da lesbica, senza sapere che l'omosessualità fosse illegale nel mio paese. Quando l'ho scoperto, con altre amiche ho creato FARUG”. Semplice, lineare, quasi inevitabile, nonostante tutto ciò che finora ha comportato questa scelta.

E nonostante quello che potrebbe comportare in futuro. Perché nel parlamento ugandese è in discussione un disegno di legge che vorrebbe introdurre la pena di morte per impiccagione per gli omosessuali. “In realtà”, spiega Kasha con uno dei suoi sorrisi, “neanche l'impiccagione sembra essere abbastanza per alcuni tra i nostri deputati. Alcuni hanno quindi proposto il plotone d'esecuzione”. Come se non bastasse, il disegno di legge prevede anche l'obbligo di denuncia – o sarebbe meglio dire di delazione – di qualsiasi “sospetto omosessuale” entro 24 ore dall'inizio del sospetto. Pena per la mancata denuncia: 3 anni di reclusione. Anche su questo, sebbene un po' a denti stretti, Kasha riesce a scherzare. “Mio fratello mi ha detto che non vuole essere costretto a denunciarmi se la legge entrerà in vigore”, racconta. “L'ho rassicurato: se la legge entra in vigore, non farò a tempo a tornare a casa, mezza Kampala sarà pronta a denunciarmi”.

Il suo sarcasmo sulla leadership del paese, adeguatamente sostenuta da gruppi evangelici americani, nonché sul pensiero dominante tra i suoi concittadini non riesce però a nascondere del tutto la sua paura. Che Kasha non cerca neanche di negare: “Quando si è iniziato a parlare dell'attuale disegno di legge, per un bel po' di tempo il mio stomaco iniziava a contorcersi ogni volta che lo sentivo nominare. Ero terrorizzata. Ma”, continua sempre con il sorriso, come se fosse la cosa più normale del mondo, “ormai ci convivo. La paura non è passata, anzi, ma è come se si trattasse di un progetto da portare avanti, un ostacolo da affrontare giorno per giorno, senza pensare troppo a quel che succederà poi”.

E in effetti il progetto da portare avanti c'è: la mobilitazione nazionale e internazionale contro il disegno di legge. “Nessuno si aspettava che un'organizzazione piccola e praticamente illegale come la nostra potesse fare tanto”, confida Kasha. “In particolare il governo pare sia stato un po' spiazzato dalla risposta internazionale”. Perché FARUG ha un'estesissima rete di contatti all'estero: non solo organizzazioni lgbt, ma anche organizzazioni per la tutela dei diritti umani e varie altre realtà delle società civili di Europa, Africa, Asia e America. Per l'associazione di Kasha, in collaborazione con altre realtà lgbt ugandesi, è stato quindi possibile lanciare una campagna internazionale che ha dato già frutti importanti: i governi di Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Svezia e, nelle ultime settimane, Germania hanno chiaramente detto al governo del presidente Museveni che sono pronti a tagliare i fondi bilaterali della cooperazione internazionale allo sviluppo se la legge entrerà in vigore. Fondi di cui il paese dell'Africa orientale difficilmente potrebbe fare a meno.

Ma le organizzazioni lgbt ugandesi sono riuscite anche a fare di meglio, dato il clima che si respira nel paese: portare dalla loro parte più di trenta organizzazioni della società civile locale – organizzazioni per i diritti umani, quelle per la lotta all'HIV/AIDS, quelle femministe e via dicendo – che stanno facendo pressione sul governo e hanno così trasformato la lotta di piccole organizzazioni omosessuali semiclandestine in una lotta per i diritti umani di una buona fetta della società. “In effetti non è stato semplice, all'inizio, creare dei rapporti con loro”, ci racconta Kasha. “Ricordo il primo incontro con il movimento femminista, anni fa. Quando siamo arrivate, alcune donne dell'associazione si sono alzate e se ne sono andate. Ma il giorno dopo sono tornate dicendoci che non erano riuscite a dormire, prese dal dubbio che il loro atteggiamento fosse sbagliato. Non abbiamo più avuto problemi e il rapporto e la collaborazione con il movimento femminista sono diventati sempre più stretti”.

In effetti la parte più pubblica della lotta è condotta quasi esclusivamente da donne, da Kasha e dalle sue colleghe. Non a caso. “È stata una cosa che abbiamo deciso assieme agli amici delle associazioni gay. Pare che i nostri concittadini”, dice ridendo più apertamente, “non abbiamo proprio capito in cosa consistano gli atti sessuali tra donne, mentre hanno molto chiaro come funzionano le cose tra due uomini. E quindi se sono i gay a prendere la parola, quasi non riescono a parlare, interrotti da commenti, offese, attacchi verbali che hanno la presunta innaturalità del sesso tra uomini come oggetto. Se parliamo noi lesbiche, invece, riusciamo quantomeno ad arrivare in fondo alle frasi. E quindi a trasmettere un messaggio”.

Naturalmente questo significa rischiare di più in prima persona. Anche nei rapporti con i familiari, ovviamente. Alcuni dei quali hanno mandato la polizia nella casa della presidente di FARUG, che fa anche da ufficio per l'organizzazione. Diversa l'esperienza di Kasha, che ammette di essere una delle poche fortunate a “essere stata accettata come sono dalla mia famiglia”. La madre in particolare l'ha sempre coperta, soprattutto ogni volta – ed è successo spesso – che veniva espulsa da scuola o dall'università. “Quando all'ultimo anno di università mi hanno espulso, mia madre è andata a raccontare che io avevo una malattia molto grave, chiedendo alle autorità accademiche di permettermi di finire gli studi”. Ma qualche momento di tensione c'è stato comunque anche per Kasha. Perché la famiglia estesa, diversamente da suoi genitori e da suo fratello, ha sempre fatto molta fatica ad accettare la situazione, facendo pressioni sulla madre che è arrivata a chiederle di tenere un profilo più basso, meno pubblico. Saputo però che, in seguito al loro scontro, Kasha stava valutando di lasciare il paese, la madre l'ha chiamata dicendo che “preferiva affrontare la disapprovazione della famiglia estesa che perdere sua figlia”.

E così l'attività pubblica di Kasha è continuata. Sia in Uganda che all'estero, dove è spesso invitata per convegni, incontri con ministri e autorità, testimonianze. In Italia invece è arrivata per iniziativa quasi personale di alcune socie del “Pianeta Viola”, associazione lesbica di Brescia, che le hanno organizzato incontri e spostamenti in diverse città italiane. Delle autorità e di incontri ufficiali neanche l'ombra. “Quando ho detto ai miei contatti stranieri che venivo in Italia”, racconta Kasha, “mi hanno chiesto cosa ci venivo a fare, visto che il vostro paese è così sordo sulle questioni che riguardano i diritti della comunità lgbt”. Ma naturalmente Kasha non si è certo fermata per questo. Ha anzi apprezzato il clima quasi familiare del suo tour, visto che “di solito ho agende molto fitte: albergo a cinque stelle, convegni, incontri, autisti. In queste due settimane invece ho girato l'Italia con delle nuove amiche”, ospitata in case private e muovendosi a piedi o con i mezzi pubblici.

Chiusa la parentesi italiana, però, l'impegno maggiore è quello di tornare in Uganda e continuare la battaglia. Il disegno di legge è ora bloccato in parlamento, ma prima o poi i deputati ugandesi ne riprenderanno l'analisi. Il lavoro di sensibilizzazione e mobilitazione, dentro e fuori dal paese, deve quindi continuare. Ma se dovesse andare male e se la legge che introduce la pena di morte per gli “atti contro natura” dovesse passare ed entrare in vigore, Kasha sa già cosa fare: “non scapperò”, ci dice, “non lascerò l'Uganda. È il mio paese, dove altro dovrei andare?”
fonte lettera22.it Scritto da Irene Panozzo

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