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mercoledì 7 luglio 2010
Lgbt, Napoli i napoletani ed il gay pride, La città ha ancora una volta dimostrato il suo alto grado di tolleranza
Due settimane fa un gigantesco e variopinto corteo è sciamato per le strade cittadine portando una nota di allegria ed un invito alla tolleranza: erano i partecipanti al Gay pride, il giorno dell’orgoglio omosessuale, festeggiato per la prima volta nella nostra città.
L’evento al quale hanno aderito non meno di 50.000 persone è stato preceduto da intense giornate di riflessione e di approfondimenti, dalle tavole rotonde alla presentazione di libri sull’argomento; si è inoltre messo a fuoco l’esigenza di una normativa specifica che includa l’aggravante per il reato di omofobia, una pratica disdicevole che ha visto una vergognosa impennata negli ultimi tempi in città come Roma e Milano.
La manifestazione da piazza Cavour a piazza Plebiscito si è svolta sotto lo sguardo divertito e compiaciuto di tutti i napoletani, che, pur non prendendo parte direttamente alla sfilata, la osservavano incuriositi additando il carro più esotico o più pruriginoso, mentre alcuni, i più anziani, esclamavano senza malizia: “ non mi ero mai accorto che a Napoli ci fossero tanti ricchioni”.
La città, patria dei femminielli e riconosciuta capitale mondiale della tolleranza non poteva comportarsi altrimenti. Nella sua storia millenaria si è nutrita di diversità, facendo prevalere l’alieno sull’identità.
Napoli nella sua lunga storia, più volte millenaria, non ha conosciuto né il ghetto né l’Inquisizione, perché il carattere peculiare che ci contraddistingue da sempre è la tolleranza, che oggi, pur tra tante pressanti emergenze, ci fa progettare a Ponticelli una grande moschea e che in futuro ci permetterà certamente di rappresentare un ideale laboratorio sperimentale di convivenza tra popoli eterogenei e culture diverse.
Il napoletano, come dimostrano recenti statistiche, non vede di buon occhio l’omosessuale più o meno dichiarato, quello politically correct, che oggi, altrove, va tanto di moda ed è apparentemente accettato da una società ipocritamente buonista, ma ha sempre accettato la figura del femminiello, che da noi può vivere quasi sempre, soprattutto nei quartieri popolari, in una atmosfera accogliente, segnata dal consenso e dal buonumore.
Nel variegato universo omosessuale, ancora mal classificato sia scientificamente che culturalmente, il pianeta costituito dai femminielli napoletani occupa un’isola privilegiata.
Nato in uno squallido basso, privo di aria e di luce, in una famiglia in cui la promiscuità è la regola, e dove i figli, tanti, dormono tutti assieme in un unico letto, il femminiello trova il pabulum ideale per sviluppare le sue particolari tendenze; è sempre l’ultimo dei figli maschi, cocco di mamma, al cui modello di dolcezza femminile tende spontaneamente, decidendo, ad un certo momento, senza essere incalzato da cause organiche o costituzionali, di appartenere: di essere donna!
Nei quartieri popolari è raro che questa decisione venga giudicata una disgrazia, la famiglia non pensa nemmeno lontanamente di allontanarlo, perché sa bene che anche la società del vicolo lo accetterà senza problemi, anzi poco alla volta lo utilizzerà bonariamente come un factotum buono per mille piccoli servizi, dall’aiuto nel fare la spesa al rammendo degli abiti, mentre nessuna mamma avrà timore di affidargli i suoi bambini, anche piccoli, se dovrà allontanarsi per qualche ora dal basso per un’improvvisa incombenza.
Il femminiello gode quindi di una bonaria tolleranza in tutti i quartieri poveri della città, dove collabora attivamente all’arcaica economia del vicolo e dove, per la cultura popolare, non è mai un deviato, ma al massimo uno stravagante, che ama travestirsi ed imbellettarsi come una donna, assumere movenze e tonalità vocali caricaturali, amplificate da una gestualità quanto mai espressiva.
Il popolino lo accetta volentieri e lo utilizza frequentemente come valvola di sfogo di malumori e aspettative insoddisfatte, scaricandogli addosso, senza malizia, una valanga di improperi in un cordiale quanto irripetibile turpiloquio, condito di frasi onomatopeiche ad effetto, comunque senza mai isterismi o inutili intenzioni moralistiche.
Volgarmente è chiamato ricchione dal popolino, che ignora di adoperare un termine assai antico e di origine spagnola. Furono infatti i nostri dominatori per tanti secoli ad introdurre, all’inizio del Cinquecento, nel nostro dialetto la parola orejones, con la quale si indicavano gli omosessuali, eredi della dinastia incaica, che si facevano forare ed allungare i lobi delle orecchie come segno distintivo.
Di giorno il femminiello fa vivere al quartiere momenti di gustosa ilarità, quando va a fare la spesa o semplicemente passeggia guardandosi intorno.
Truccati pesantemente soprattutto alle labbra, indossano camicette scollate e pantaloni attillatissimi, che a fatica nascondono una dimenticata, ma sempre imbarazzante appendice sessuale. Nonostante la cultura modesta, hanno spirito mordace, senso del ridicolo e la battuta sempre pronta. Raggiungono il massimo della teatralità dal verdummaro, quando palpeggiano e scelgono le zucchine più lunghe e più dure o si beano accarezzando i meloni più tondi.
Quando entrano in un negozio il divertimento è assicurato, vengono accolti con piacere dagli astanti e qualche ragazzo impertinente li sfruculea, canticchiando qualcuno dei motivi dedicati a loro dai neomelodici o la celebre canzone di Pino Daniele, che racconta la storia di un travestito di nome Teresa.
La diffusione capillare della droga, anche se giunta in ritardo nella nostra città, perché ad essa si opponevano famosi camorristi, come lo stesso Cutolo, ha travolto equilibri secolari ed anche la comunità dei femminielli ne ha risentito vistosamente. La peste del XXI secolo, l’AIDS, ha cominciato a dilagare, riducendo a larve e fantasmi vaganti tanti omosessuali, costretti a diventare miseramente posteggiatori abusivi o mendicanti.
I vicoli dei quartieri spagnoli, dopo il sisma del 1980, sono stati progressivamente occupati da extracomunitari, dalla cultura lontanissima dalla nostra, per cui è scomparso quell’ambiente familiare del vicolo, con la sua economia ed i suoi rapporti interpersonali molto stretti, quasi maniacali. La vita quotidiana nelle stradine sopra via Toledo era scandita da un senso di socializzazione e di appartenenza fortissimo, ancor più stretto per chi viveva nella stessa strada. Il senso della vita comunitaria tra il popolino si è affievolito lentamente dal dopoguerra in poi, per deteriorarsi maggiormente con l’arrivo di cingalesi e capoverdiani.
Un dato eminentemente urbano, non derivato dalla civiltà contadina, che ha caratterizzato per secoli i nostri vicoli e che oggi è al capolinea. Scomparso il proprio territorio protetto i femminielli si trovano oggi alla deriva senza bussola e senza consenso sociale. Devono combattere con i viados brasiliani, importati massicciamente dalla malavita, portatori di una sottocultura diversa, legata unicamente al moloch dei nostri giorni infelici: il denaro.
Cambieranno, scompariranno, come sono scomparse le nostre puttane, sostituite egregiamente da albanesi e nigeriane? Sembra sia in atto una vera e propria mutazione cromosomica. In ogni caso i femminielli di domani saranno diversi da quella specie, che ha allignato per 25 secoli all’ombra del Vesuvio, costituendo una caratteristica, nel bene e nel male, della nostra amata città.
L’importante è che una manifestazione come quella di sabato serva a rinsaldare il carattere tollerante dei napoletani e sia di monito ad essere ogni giorno rispettosi dei diritti dei diversi, soprattutto quando per diverso si intende il disabile o l‘extra comunitario.
fonte capitanata.it Achille della Ragione
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