mercoledì 24 marzo 2010

Arte LEONOR-FINI


LEONOR-FINI

Realismo magico è forse la miglior definizione della pittura di Leonor Fini («realismo irreale», lo chiama Jean Cocteau, aggiungendo che «tutto il soprannaturale è per lei naturale» ): le sue figure immobili di dormienti, con gli occhi serrati e le labbra dischiuse; le sue donne perdute in stanze vuote, dove appare d’un tratto una visione di fuoco; o immerse fino al mento in acque buie, con gli occhi brillanti in una guardata obliqua.

Pittura «ai limiti del nostro mondo», come scrive Yves Bonnefoy, arte «un poco alchemica, per la frequentazione di figure misteriose che però purificano lo sguardo». Sul suo desiderio di purezza, nell’attingere, attraverso la metamorfosi, a un mondo altro, insiste lo stesso Max Ernst - che l’ammirava - in uno scritto critico sui suoi quadri «fatti di vertigine, ... vuoto all’inverso» popolato di esseri favolosi, chimerici, ma «depurati da ogni cosa pericolosa».

Leonor Fini, pittrice amata da artisti e poeti, è stata, ed è, figura controversa, come in genere coloro che procedono da soli, nella loro arte: lei stessa, a un certo punto della vita, si lagna di questa solitudine, con la consapevolezza di essere sempre andata controcorrente. E donna affascinante, la famosa donna-gatto delle sontuose feste parigine del dopoguerra (a causa delle magnifiche maschere feline che ella stessa si costruiva) che organizzava nel suo celebre Salone Art Nouveau nel palazzo in rue de la Vrillière, e dove davvero si ritrovava le tout Paris.
In lei coesistevano il lato mondano - volentieri si prestava a essere oggetto di ammirazione - e la melanconia profonda, il corteggiamento della morte che traspare dalle sue opere («teatro macabro» come lo definì Jean Genet) e che sempre accompagna nature eccessive come la sua.

Triestina di ascendenze slovene (per parte di madre) e di padre argentino, Leonor Fini nasce nel 1908 a Buenos Aires, da cui però rientra presto in Italia, separatisi i genitori. Dalla sua casa a Trieste erano passati Svevo e Saba, e lo stesso Joyce, amici di famiglia. E negli anni Venti ne respira l’aria di grande città cosmopolita d’Europa. Ma il richiamo di Parigi è troppo forte, e vi si trasferisce venticinquenne nel 1931. Riconosciutone subito il valore, i surrealisti vorrebbero reclutarla nella loro schiera, ma lei tiene una rispettosa distanza, sebbene partecipi ad alcune loro mostre, come la prima «Fantastic Art, Dada and Surrealism» al Moma di New York, nel 1936, o la mostra del mobile surrealista, insieme agli amici Dalí, Ernst, Giacometti, Meret Oppenheim. E da ora in poi la sua carriera procede trionfalmente, con centinaia di mostre in ogni luogo del mondo, e una serie di attività a latere.
fonte : Idolina Landolfi per Il Giornale

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