Primo colpo di fulmine di Divergenti 2012, festival dedicato alle tematiche del cinema transessuale e transgender: Lovely Man, diretto da un regista indonesiano che sa trascendere i confini della cultura d'origine, pur raccontandola, restituendo in uno splendido mélo luminoso e toccante alcuni passi di un dialogo tra padre e figlia che va oltre la specificità del caso e diventa universale
La diciannovenne Cahaya vive sola con la madre dall'età di quattro anni.
Il suo viaggio inizia in un treno scalcinato, dalla provincia indonesiana ai grattacieli e alle luci della metropoli Jakarta: l'arrivo della ragazzina in un paesaggio metropolitano sfavillante e povero insieme, ripreso in digital betacam, del quale vediamo subito lo splendore artificiale e anche la miseria, è davvero un momento di grande purezza e innocenza, particolarmente soprendente se si pensa a quante volte abbiamo assistito a sequenze simili.
Il suo stupore e la sua vertigine, la sua timidezza caparbia e la sua fiducia nell'andare alla scoperta di Syaiful, un padre che non conosce, sono parte di un magico equilibrio che modella l'intero film, già presentato al Torino GLBT film Festival, a Busan e in altri festival orientali.
Tra sofferenza e tenerezza, dolore e umorismo, peculiarità di una singola vicenda umana e semplicità eterna di una prossimità spontanea tra persone differenti, Lovely Man è un film delicato e forte, come una poesia che non ha bisogno di essere letta ad alta voce, ma viene scritta in segreto e poi lasciata in un cassetto.
Mentre scende la sera, Cahaya (Raihaanun) si aggira alla ricerca di un padre che crede al lavoro in un ufficio: scoprirà ben presto che suo padre (Donny Damara, la sua performance è stata premiata nella 6°edizione degli Asian Film Awards) si fa chiamare Ipuy, indossa parrucca, tacchi e tutto l'armamentario ipersexy delle trans che si prostituiscono sul ciglio di un ponte ed è assediato da alcuni piccoli criminali ai quali ha sottratto la cifra necessaria per cambiare definitivamente sesso.
Il primo incontro tra i due è un piccolo capolavoro di minuscoli avvicinamenti e distanze siderali, che proseguiranno per tutta questa breve lunga notte in cui un passo dietro l'altro questa strana coppia si prende le misure: tra i momenti di attrito e di difficoltà, il peso degli anni e dell'abbandono, la diffidenza di Syaiful, che inizialmente si rifiuta alla sua ospite inaspettata, inizia a galleggiare tra i due un sentimento esplicito e inespresso, un affetto dolcissimo e dolente, in cui per ritrovarsi ambedue sono disposti a rinunciare a una grossa parte delle proprie convinzioni.
Cosa fa davvero di un padre un padre, di una figlia una figlia? La genetica? I doveri di mantenimento e di cura? O il dialogo che riesce a riemergere come una fenice, libero da condizionamenti, proprio quando il rapporto sembrava compromesso e perduto?
È come se il cinema transgender – che inizia a manifestare una sua precisa fisionomia, come spiegavano le organizzatrici del festival all'inaugurazione, anche perchè non si limita più al racconto documentaristico ma inizia a lavorare su un immaginario di fiction – fosse depositario di una capacità di decostruire, oltre a una divisione per generi, tutte le presuntuose certezze sulle quali ci puntelliamo nel nostro vissuto; come se riuscisse a divaricare i nostri percorsi precostituiti a favore di una realtà fisica che brilla nella sua indefinibilità, aprendoci ad altre dimensioni alle quali affidarci: non risposte ma altre domande, quelle essenziali.
Il miracolo di un contatto improbabile che nasce dalle ceneri di una lontananza è infinitamente più importante di tutto il resto, rivelato da un cinema che non riesce a fare a meno di vivere in strada, di correre nella vita.
Così gradualmente, un passo alla volta, mentre la città ruggisce e pulsa, la vamp Ipuy brusca, sboccata, turbolenta e impulsiva, apre il suo cuore indecifrabile e basta un attimo per leggere in quello della figlia il segreto che l'ha portata a questa avventura (è incinta); e nella timida ragazzina musulmana alla ricerca del genitore perduto vede semplicemente ciò che è, una bimba che ha saltato la cena; mentre Cahaya, per quanto sbigottita, presto si libera del velo come gesto simbolico che abbatte ogni barriera, e si abbandona con straordinaria innocenza e curiosità alla scoperta di un padre a suo modo unico, che resta padre al di là delle sue scelte, del suo aspetto, dei suoi vestiti o dell'uomo che ama e con il quale spera di rifarsi una nuova vita.
Questo padre, mentre si aspetta il canto del muezzin, che per i non religiosi è un momento di conforto semplicemente perchè annuncia che un'altra notte è passata, sarà anche un corpo ferito e depredato da un'aggressione della quale non ci viene risparmiata la violenza: e il contrasto intenso tra lo smarrimento della figlia, che lo crede fuggito e si rifugia a pregare, senza fanatismo, ma con la stessa innocenza con la quale ha posato la testa sul reggiseno imbottito del papà-puttana, e il ritorno a casa di Ipuy sanguinante, si risolve in un finale di grande pudore e onestà.
Cosa fare mentre tuo padre, che hai appena conosciuto in un'esistenza di cui non sai nulla, si lecca le ferite? Lavi tutti i piatti nell'acquaio, metti a posto la piccola stanza. A volte lavare un piatto è l'unico atto d'amore disponibile al momento. Non c'è improbabile happy end, ciascuno tornerà alla sua vita, almeno per ora. Ma il gioco che padre e figlia facevano anni prima, giocare sotto la pioggia, assume un nuovo significato, nel consiglio paterno che Ipuy sa dare a Cahaya: non fuggire la pioggia, perchè ti bagnerai comunque, limitati a imparare a danzare sotto di essa.
fonte http://www.sentieriselvaggi.it/ di Margherita Palazzo
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