lunedì 17 settembre 2012

Il Dress Code per LGBT entra nelle università e nei luoghi di lavoro

Il Dress Code per GLBT entra nelle università e nei luoghi di lavoroL’abito: rappresentazione dell’io sociale; espressione del proprio essere interiore; specchio della propria anima. Tutte queste possono essere delle definizioni adatte per gli indumenti che, da quando Adamo ed Eva hanno mangiato la mela della conoscenza e

hanno scoperto il pudore, non si sono mai limitati ad essere un mero strumento per “ripararsi dal freddo”.

L’abito è sempre stato un mezzo per comunicare e veicolare il proprio pensiero con gli altri e, proprio per la sua immediatezza, capace di trasmettere un messaggio alle grandi masse.

Che dire di Michelle Obama che nei momenti clou della campagna elettorale del marito indossava abiti non troppo costosi per avvicinarsi alle masse e far comprendere che tra lei e l’elettorato non c’era alcuna differenza?

E che dire di Kate Middletoni, duchessa di Cambrige “accusata” più volte di “riciclare” abiti della madre o indossare più volte un capo?

L’abito ha insito in sé un significato semantico che non lo rende mai neutro ma sempre un trasmettitore di un pensiero, un’idea o un modo di essere. Anche l’assenza dell’abito (il nudo) è di per sé un veicolo.

Idee politiche (camicia rossa o nera), umore (abiti colorati o scuri) o atteggiamento (formale o casual) nulla è lasciato al caso e nulla è “incomunicabile”… compresa l’identità sessuale.

Gonna, cravatta, pantaloni, collant… tutti indumenti che nel passato si ritenevano di facile interpretazione ma l’evoluzione culturale ha “rimescolato le carte” del dress code e “trasferito” indumenti da un sesso all’altro cambiandone il significato.
E’ il caso dei pantaloni passati alle donne quando gli uomini erano in guerra; della camicia adottata dal gentil sesso dopo aver spostato asole e bottoni (perché una donna di classe ha sempre una cameriera che l’aiuta a vestirsi) e il cravattino sintomo di potere e mascolinità ma modificato nei colori, fattura e tessuti.

L’evoluzione sessuale e il desiderio di fare “outing” e vivere la propria individualità è sempre più forte e anche la tradizionale Oxford ha dovuto fare i conti con questo fenomeno. Il rigido codice vestimentario adottato università è stato modificato per adattarsi alle esigenze della comunità GLBT consentendo collant ai trans e cravattini alle lesbiche.

“È certamente un'importante novità - spiega Alessandro Bertirotti, antropologo della mente - la notizia che l'università di Oxford cambi un articolo del proprio dress code, ossia del codice relativo agli indumenti che gli studenti e i professori devono indossare all'interno della struttura. Si apprende che saranno permessi capi di abbigliamento consoni all'organizzazione mentale di coloro che li indossano.

Eh, sì… questa volta non si tratta di una semplice questione di costume dei tempi, oppure dell’espressione di un termometro sociale che si adegua alle esigenze di tutte le differenze, ma è un vero e proprio sintomo di qualche cosa di molto importante, specialmente dal punto di vista antropologico.

Io personalmente approvo la riforma – prosegue il Professore Bertirotti -. Per un motivo semplice, etimologico e semantico: si chiama "Università", da "Universitas" e se sappiamo cosa vuole dire, sappiamo anche che l'universo è nei libri ma anche, e soprattutto direi io, in coloro che li leggono e li studiano.

Dunque, ci sono oggi, come sono sempre esistite le differenze tra generi, culture ed atteggiamenti di preferenza sessuale. Quando tutto resta nel decoro, ossia in Occidente non ci presentiamo nudi, ogni indumento che copre un corpo deve, secondo me, essere accettato in una società. Se, in una data società, esiste una regola che impone di vedere il volto, come nella nostra Occidentale, allora niente burqa. Ma esiste in questo caso una regola di riconoscimento della persona in quanto persona, ossia maschera, come indica il termine in latino.

Nel caso dell'Università, in nome del rispetto della coerenza che tanto la scienza predica tra ipotesi e testi, abbiamo una ipotesi di identità femminile in corpo maschile, e, fino a prova contraria, deve esistere una tesi che segue tale coerenza. E', per me, proprio una questione scientifica, in questo caso e non sociale.

E per quanto riguarda il mondo del lavoro?
Se all’università – pur restando nel decoro – si accettano delle “rivoluzioni” vale lo stesso principio quando ci si trova in un rapporto B2B e in pochi minuti un candidato deve non solo conquistare la persona che ha di fronte ma soprattutto convincerlo di essere la persona “che sta cercando”? Il mondo del lavoro è molto più spietato e spesso l’abbigliamento è utilizzato come strumento per raggiungere i propri obiettivi e non sempre in modo leale.

Che dire di una donna che si presenta a un colloquio in abiti succinti? In certi ambienti si penserebbe che è una donna di “facili costumi” ma in altri contesti, ad esempio a una selezione per soubrette (o Veline come vediamo in questi giorni in televisione), mettere in mostra le proprie forme è addirittura richiesto.

La stessa cosa si ripete per gli uomini che, magari, devono evitare il pantalone corto o la scarpa aperta in alcuni colloqui ma in altri (magari capo animazione in un villaggio per restare nel clima estivo) nessuno farebbe caso a questa mise.
E’ solo di poche settimane fa la notizia di una giornalista di Al Jazeera che è andata in onda con il capo coperto dal velo: un semplice accessorio che nell’islam ha un fortissimo significato semantico di tipo religioso e ideologico, eppure l’emittente televisiva si professava di aperte vedute.

“Penso che ogni persona sappia utilizzare la propria intelligenza, che è tale e differenziata in base al sesso di appartenenza, alla cultura e dunque agli atteggiamenti che si sono sviluppati nel corso della propria vita – continua Alessandro Bertirotti -. Se voglio raggiungere uno scopo, essere assunto, in una società i cui membri maschi, spesso e parecchi, anche se non tutti, hanno rapporti clandestini con trans, mi presento ipocritamente vestito da maschio quando serve.

Oppure, sempre ipocritamente, da trans quando so che questo atteggiamento stimola le fantasie del mio possibile datore di lavoro. In questo ultimo caso – conclude - , riesco, in base al comportamento de datore di lavoro, a capire come potrò stare nel caso mi assumesse, e posso decidere di restare a lavorare lì, oppure salutare tutti.
fonte http://www.corriereinformazione.it Marcella Sardo

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