È un grande ritorno, dopo quarantasei anni. Marina Abramović torna a
Napoli, con la mostra internazionale “Marina Abramović / Estasi”.
Farà
da sfondo alle performance artistiche Castel dell’Ovo. In questa
suggestiva location, il 5 settembre segnerà l’inizio della seconda tappa
del tour italiano, dopo Milano.
L’esposizione, proposta da VanitasClub con la curatela di Casa
Testori, prevede un ciclo di tre maxi video denominato “The Kitchen.
Homage to Saint Therese”. Si tratta di un’opera in cui la Abramović si
relaziona con la figura di Santa Teresa d’Avila mettendo in evidenza gli
stati d’estasi già catturati dal Bernini nella scultura “Estasi di
Santa Teresa”.
Il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha così commentato la
notizia della mostra: “Siamo felici e onorati di riavere a Napoli una
testimonianza della grande artista internazionale Marina Abramović. […]
L’energia della cultura sarà essenziale per recuperare la pienezza del
vivere dopo quest’emergenza planetaria. Crediamo che sia importante oggi
investire anche su una visione di serena normalità del prossimo
futuro”.
Marina Abramović (Belgrado 1946) è una delle più autorevoli esponenti
della ricerca performativa internazionale, decana di tutte le forme
d’espressività legate al corpo e da esso derivanti, rinnovate
continuamente dall’artista fino agli anni più recenti. È il caso unico
di un’artista che ha utilizzato negli ultimi quarant’anni –
ininterrottamente – la performance come medium di espressione
privilegiato, declinandola in tutte le sue forme e determinandone
inevitabilmente la storia, gli esiti e gli sviluppi, ma nello stesso
tempo condizionandoli e forzandoli fino a farne deflagrare
consapevolmente i confini.
Il rapporto tra arte e vita è un elemento fondante del suo lavoro, in
cui la vicenda artistico esistenziale di Abramović rimanda alla
relazione osmotica tra la storia dell’artista e la storia stessa della
performance che la accompagna. Si pensi alle azioni radicali risalenti
alla prima metà degli anni Settanta, dove l’artista più volte spinge
all’estremo i propri limiti fisici e psicologici e mette a repentaglio
la sua stessa sopravvivenza (Rhytmh 5, Centro Studentesco Giovanile,
Belgrado, 1972; Rhytmh 0, Studio Morra, Napoli, 1975). Si pensi al lungo
sodalizio con Ulay (Frank Uwe Laysiepen), sintesi luminosa di totale
coincidenza fra arte e vita, di fusione simbiotica d’intenti che resta, a
tutt’oggi, un caso isolato nella storia delle arti performative
(Relation in Space, 37a Biennale di Venezia, 1976; Imponderabilia, GAM,
Bologna, 1977; The Lovers: The Great Wall Walk, 1989). Si pensi ancora
al doloroso riattraversamento dei miti e dei drammi balcanici, un
percorso scandito da lavori che si situano tra il tono tragico di Balkan
Baroque (che vale all’artista il Leone d’Oro alla 47a Biennale di
Venezia, 1997) e quello satirico di Balkan Erotic Epic (2005).
fonte: www.quotidianonapoli.it
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giovedì 28 maggio 2020
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