martedì 11 ottobre 2011

Film lgbt "Tomboy" Il segreto di Laure, l’ambiguità sessuale di una preadolescente nel film di Céline Sciamma


La riprova che il sistema di sostegno al cinema francese funziona è la messe di nuovi talenti già professionalmente maturi e finanziariamente solidi che spuntano continuamente da un paese in cui la cultura è ancora considerata importante e (gasp!) persino redditizia.

Ultima testimonianza del buon funzionamento di quel sistema è Tomboy di Céline Sciamma, regista appena trentenne ma già alla sua opera seconda dopo Naissance des pieuvres, premio César come miglior esordio del 2007.

Tomboy, il cui titolo significa «maschiaccio», è la storia di una bambina di dieci anni, Laure (la straordinaria Zoé Héran, creatura di confine fra il maschile e il femminile perfettamente innocente nella sua ambiguità sessuale come lo era il Tadzio di Morte a Venezia), che approfitta di un trasferimento della propria famiglia per inventarsi un’identità maschile.

Laure si presenta infatti ai nuovi amici come Mickael e procede a giocare a pallone con loro, a fare il bagno (imbottendo il costume), a baciare una compagna di giochi.

Grazie ad una regia mai insistita e sempre attenta a cogliere la verità nelle reazioni dei giovanissimi interpreti, respiriamo insieme a Laure l’ebbrezza dell’inganno e il terrore di essere smascherata, percepiamo sulla nostra pelle (giacchè Tomboy è un film eminentemente fisico) il respiro della libertà nello sfuggire alle restrizioni di genere e il panico sottile nel dover costruire una bugia sempre più intricata.

Sciamma è maestra nel mostrarci come, all’interno di una famiglia piena di amore incondizionato verso tutti i propri membri, Laure non abbia mai dovuto scegliere di appartenere ad un sesso piuttosto che a un altro, né conformare la propria identità individuale ad un genere specifico.

In particolare è straordinario il rapporto fra la ragazzina e la sorella minore Jeanne (Malonn Lévana, una minidiva senza nessuno dei manierismi della star bambina) che, al contrario di Laure, è istintivamente iperfemminile e allo stesso tempo in grado di accettare completamente la sorella e di vivere nella sua dimensione ludica (ben presente nella storia, anche quando il gioco si fa socialmente pericoloso) la sua trasformazione in Mickael.

Ma la società «civile», con i suoi schematismi e il suo bisogno di incasellare le individualità, è in agguato, come lo è per ogni bambino che si affacci all’adolescenza.

Il dettaglio più crudele di Tomboy è che quella società è incarnata dalla stessa madre di Laure, che pur avendola sempre accettata nella sua complessità, si ritrova ad agire con efferata crudeltà quando apprende dell’inganno della figlia nei confronti del resto del mondo.

Il gesto della madre è ancora più eclatante perché si contrappone a quell’arcadia sfumata che fino a quel momento ha visto Laure in simbiosi con la natura e con gli altri senza bisogno di categorie e definizioni, in una spontanea armonia.

La naturalezza delle riprese e la veridicità nel raccontare l’interazione fra preadolescenti ricorda quella di Abdel Kechiche ne La schivata, altro film delicato e crudele emerso nel recente passato dalla fabbrica di talenti d’oltralpe.

E il punto di vista della Sciamma, pur nella lievità della confezione, è definito e personalissimo: anche questo un lusso consentito dall’industria cinematografica d’oltralpe che si ricorda di non interferire, a livello produttivo, con la capacità dei neoregisti di esprimere la propria visione artistica.

La storia di Laure non è mai scontata, la sceneggiatura di Tomboy è scritta in punta di penna facendo leva più sui silenzi che sulle parole, e il finale aperto rispetta la capacità degli spettatori di immaginarsi un seguito e di decidere se l’inganno di Laure sia il prodromo di una futura omosessualità o solo la sperimentazione tipica dell’età in cui è ancora lecito giocare a «fare finta».

Forse l’aspetto più convincente di Tomboy è la capacità della regista-sceneggiatrice, con poche ed essenziali pennellate, di contrastare il senso di onnipotenza dei bambini, padroni incontrastati del loro microcosmo, con la repressione dell’età adulta che lascia i piccoli alla mercè delle decisioni dei grandi, siano esse un trasloco o una richiesta di scuse.

Sciamma ci fa rivivere quel delirio di onnipotenza e quella frustrazione con uguale partecipazione emotiva e uguale intensità, e ci ricorda che, a dieci anni, conta solo l’attimo presente, che sia gioioso o disperato.
fonte http://www.europaquotidiano.it, di Paola Casella

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