L’articolo è stato pubblicato sul numero di Vanity Fair in edicola fino al 13 ottobre
È una donna, che veste come un uomo al quale piacciono le donne. Dice di sé di essere «lesbica e gender-fluid, non-binary, queer, fuori dalle categorie». Per Cathy La Torre definirsi è fondamentale: da quelle parole dipendono diritti importanti, per cui lei si batte dal 2008, quando ha fondato il Centro Europeo di Studi sulla Discriminazione.
Quarant’anni, avvocata, è il riferimento per chi subisce ingiustizie legate alla propria identità di genere (transgenderismo) o al proprio orientamento sessuale: «Due cose diverse fra loro e troppo spesso confuse: l’identità di genere è come io mi sento rispetto alla mia identità, attiene al rapporto che ho con me, il mio sentirmi uomo o donna, o nessuno dei due.
L’orientamento sessuale indica invece da chi sono attratta: posso
essere eterosessuale, bisessuale, omosessuale, pansessuale, ma non
dipende dal genere a cui sento di appartenere. Il triste e ormai famoso
caso di Ciro e Maria Paola, quella ragazza morta a Caivano, ne è un
esempio: la loro non era una relazione lesbica come è stato detto. Ciro è
nato femmina, ma oggi è un uomo, si sente un uomo, e Maria Paola era
una donna, il che vuol dire che la loro era una relazione eterosessuale.
Le parole hanno un peso: se le sbagli togli dignità alle persone,
rovini delle bellissime storie d’amore».
Ed è appunto per non mancare di rispetto e non offendere nessuno che,
dopo quella sigla LGBTQ, si è aggiunto un «+», un plus che lascia la
definizione aperta, che include tutte le lettere dell’alfabeto, per
qualsiasi variante si voglia: ultimamente si è inserita anche la I come
intersessuali e la A, per gli asessuali, poi la P per i poligami…
Ma perché c’è bisogno di definirsi?
«È necessario perché la legge ha bisogno di codificare: la legge non è
un campo completamente aperto e in tribunale non è accettabile
un’eccessiva discrezionalità. Se alcune persone rimangono in un limbo,
senza diritti e riconoscimento da parte dello Stato, rischiano di non
esistere. Pensiamo per esempio alle persone non-binary, come io stessa
mi definisco, a chi cioè non riconosce la costruzione binaria del
genere, ovvero l’idea che esistano solo due generi ben separati, o uomo o
donna. In questi casi la legge non dà alcuna risposta. In Italia esiste
un solo riconoscimento legale di persona non-binary e l’ho seguito io:
il mio assistitu – si usa la U per non usare né la O del maschile né la A
del femminile – è riuscitu a cambiare nome e adesso ha un nome neutro.
Si può scegliere fra tanti: penso a Jean, Elia, Andrea, Ethan…».
Lei ha gestito centinaia di casi, ci racconta quelli esemplari, che hanno cambiato lo stato delle cose?
«Dopo che, nel 2015, abbiamo ottenuto dalla Cassazione la legge che
prevede la possibilità di cambiare il nome e l’indicazione del genere
sulla carta d’identità anche senza ricorrere all’intervento chirurgico
sui genitali, si poneva però un problema: rispetto a chi cambiava nome
senza l’intervento, chi voleva fare quell’operazione aveva tempi molto
più lunghi prima di vedere corretti i propri documenti, perché per fare
un passaggio di genere ti devi presentare davanti a un giudice una prima
volta per avere l’ok all’intervento e una seconda volta per avere il
cambio di nome, con i tempi della giustizia che ben conosciamo. Con una
ragazza trans di Modena siamo invece riusciti a fare tutto in un’unica
sentenza, risparmiando così anni di fatiche, umiliazioni, costi
economici e psicologici. Quel caso ha fatto da apripista per tutti i
tribunali d’Italia e quella procedura è ormai diventata la prassi. Un
altro caso è quello di Chloe, che a Tempio Pausania, in Sardegna, ha
ottenuto il permesso del cambio di sesso benché ancora minorenne».
Ma quando si può chiedere il cambio di genere sui documenti?
«Ci sono Paesi, come la Svezia, in cui è stata abolita la divisione tra
maschile e femminile e, per esempio, in Spagna, a Malta, in Nuova
Zelanda, in Argentina e in Brasile si va diretti all’ufficio anagrafe
con una certificazione di uno psicologo. Invece in Italia bisogna andare
in un tribunale, fare una causa in cui la controparte è lo Stato, e
affidarsi a quello che deciderà il giudice, che dovrà essere convinto
attraverso comprovati percorsi psicoterapeutici, testimonianze concrete
di assunzioni ormonali per un tempo sufficiente tale da indicare una
volontà definitiva, con la garanzia che non si cambi poi idea…».
Ma allora, se ci deve essere una fermezza indiscutibile, non è
rischioso che i minorenni possano intraprendere un percorso di cambio
di genere? Loro avrebbero tutto il tempo per cambiare idea.
«In realtà se sull’orientamento può essere normale una certa fluidità in
età adolescenziale, l’identità di genere è primaria, la si può vedere
da un’età precocissima: già da piccolissimi, dai 4/5/6 anni, si può
percepire un’identità di genere opposta al sesso biologico e a 13 si sa
bene chi si è. Riuscire a intervenire presto permette di sottoporsi a
molti meno interventi chirurgici: finché si è giovani si può incidere
sul corpo solo con gli ormoni, senza sottoporsi a quell’incredibile
quantità di operazioni a cui si è invece costretti in un’età più
avanzata».
Quando l’identità di genere non appare chiara, come ci si rivolge a queste persone per non offenderle?
«La cosa migliore è chiedere loro come preferiscono. Non c’è niente di
male. Negli Stati Uniti usano il they, il loro, per non usare she, lei, o
he, lui. Anche questa è un’attenzione».
Ma in giro c’è ancora tanta gente che non rispetta questa persone «fluide»?
«Assolutamente sì. C’è una grande discriminazione, soprattutto verso le
persone trans. Anche nella comunità LGBTQ+ ci sono delle differenze. Gli
uomini gay sono certamente i privilegiati: di solito altamente
scolarizzati, non hanno figli e possono spendere di più per loro stessi,
cosa che li rende molto amati dal mercato della moda. Ma se sei trans
il discorso è diverso: i soldi ti serviranno soprattutto per portare
avanti un’eventuale transizione e sarai meno considerato nella società
dei consumi. Se poi sei trans e black, allora sei l’ultimo tra gli
ultimi».
E i social che ruolo hanno?
«Per le persone LGBTQ+, l’avvento dei social è stato una rivoluzione.
Prima, quando gli spazi di aggregazione erano solo fisici, incontrare
propri simili non era semplicissimo. Nei piccoli paesi di provincia
rischiavi di trovarti da solo. L’avvento di Internet ha permesso le
prime chat tra persone LGBTQ+, ha aiutato l’emersione e comunque ha dato
la possibilità di avere una vita a chi altrimenti non l’avrebbe avuta».
Il 10 novembre esce il suo nuovo libro Nessuna causa è persa (Mondadori). Grazie al suo impegno per le cause sociali nel 2019 ha vinto il The Good Lobby Awards per la categoria pro bono.
fonte: www.vanityfair.it foto MAX & DOUGLAS
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