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giovedì 25 febbraio 2021

La danza è maschio e femmina. Liberiamo l’arte dal pregiudizio!

Uno stereotipo consiste in una particolare rappresentazione mentale volta a incasellare persone o cose in determinate categorie stabilite. Si tratta quindi di un’idea preconcetta, prevenuta e generalizzata, basata su background culturali, etnici, di orientamento sessuale, religioso, e via dicendo, che spinge a etichettare un gruppo o un individuo.

Uno dei più comuni stereotipi riguarda proprio la danza che viene superficialmente considerata una attività ‘da ragazze’. Se scelta da un individuo di genere maschile, porta direttamente a un falso preconcetto di natura sessuale.

Il tema è delicato. Si tende ancora a ritenere che il ballerino maschio sia omosessuale o che addirittura potrebbe diventarlo frequentando l’ambiente della danza. Ma la danza non ha nulla a che vedere con le preferenze sessuali che invece rientrano nella sfera delle libertà individuali e che nessuno ha il diritto di giudicare.

Queste credenze sono spesso dettate da un retaggio culturale obsoleto e anacronistico. Sfortunatamente però sono ancora diffuse, quando invece tutti dovremmo essere consapevoli che l’identità di genere non è così netta come siamo stati educati a credere.

La maggior parte delle persone si dichiara favorevole alla parità di accesso a tutte le attività indipendentemente dal genere, tuttavia, quando i genitori scelgono i giocattoli, lo sport o le attività ricreative per i propri figli tendono a perpetuare i ruoli di genere.

Man mano che i bambini crescono, seguono solo parzialmente i loro interessi. Sono condizionati a svolgere attività cui sentono di appartenere, rinunciando alla loro reale passione soltanto per paura del giudizio.

Per questo motivo molti bambini decidono di non iscriversi a danza e deviano le loro scelte su attività socialmente accettate per il loro genere, e tutto ciò si traduce in un grande ostacolo alla loro crescita armoniosa.

I genitori, tuttavia, possono e dovrebbero incoraggiare i propri figli a sperimentare un’ampia varietà di attività, senza mostrare sorpresa se il bambino sceglie la danza anziché il calcio, per esempio.

Oltre ad aiutare ad abbattere questo ridicolo condizionamento sociale e dare il buon esempio ai propri figli, possono incoraggiarli a smarcarsi dal giudizio fine a se stesso, aiutarli a conoscersi meglio e a diventare più forti.

In realtà, l’unica considerazione davvero importante è che la danza fa bene, a maschi e femmine. È una forma d’arte neutra, sulla cui base nascono e si sviluppano altre abilità importanti, e che insegna rispetto e libertà.

Un ballerino è un ballerino, punto. Non importa che sia maschio o femmina, alto o basso, biondo o bruno, è un essere danzante, una persona che impara il rispetto, la disciplina e l’auto-disciplina.

Esattamente come le ragazze, quindi, anche i ragazzi traggono enormi vantaggi dalle lezioni di danza: sfogano l’energia repressa, la rabbia e imparano a gestire le oscillazioni emotive legate alla crescita. Possono scovare svariate soluzioni ai problemi che incontreranno nel corso della loro vita. Possono imparare a superare i fallimenti e le battute d’arresto con grinta, fortificandosi emotivamente e sviluppando la capacità di gestire serenamente le possibili delusioni future.

Il ballerino inoltre modella il suo corpo per danzare, rendendolo più forte e sano. Riconosce, esterna e vive le proprie emozioni e sviluppa una maggiore intelligenza emotiva, grazie allo stimolo creativo insito nella danza.

Danzare mette di fronte ai propri difetti e limiti unicamente con il fine di superarli, rende consapevoli di ciò che possiamo fare per noi stessi e soprattutto per gli altri, e aiuta a capire quanto sia importante essere e non apparire, contribuendo così al miglioramento della società di cui tutti facciamo parte.

La danza, in definitiva, ci insegna che abbiamo un potenziale illimitato per crescere e migliorare, e che non esistono stereotipi, preconcetti o pregiudizi.

fonte: di  Stefania Napoli per  https://giornaledelladanza.com

mercoledì 15 novembre 2017

Lgbt: Politiche di pari opportunità e stereotipi di genere nei media italiani e scandinavi. Di Marco Buemi


In una società consumistica la pubblicità ed il marketing contribuiscono a definire e formulare i sogni, i desideri, le idee e le motivazioni degli individui. Se vogliamo costruire una società in linea con gli interessi dei cittadini e dai forti valori sociali, è cruciale affrontare il tema della pubblicità e dei media sensibilizzando i cittadini su uno dei valori più importanti: l'uguaglianza di genere. (In foto a Stoccolma - Spazio riservato per immagini di donne nude e ritoccate)

Finché l'immagine delle donne e degli uomini rimarrà limitata a degli stereotipi, o a meri oggetti di desiderio, sarà impossibile raggiungere una concreta uguaglianza dei sessi.

 A tal fine, risulta utile chiedersi in che modo la pubblicità, le notizie, e i principali strumenti di comunicazione influenzano e incrementano il divario di genere e come sensibilizzare il pubblico ad una visione consapevole delle problematiche legate a tale questione. In questi giorni a Roma, al Macro di Testaccio, è stato organizzato dall'agenzia di comunicazione sociale "Sulle Ali" un Festival dedicato alle donne e alla violenza di genere  “Signori e Signore… ingresso libero dalla violenza”, quattro giorni dedicati a teatro, fotografia, arte, cinema, spettacoli, laboratori e convegni per sensibilizzare al grande problema sociale ma anche economico e sanitario della violenza sulle donne. I dati che emergono dall’ultimo rapporto Istat e presentati all’audizione del 27 settembre scorso alla Commissione Parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere ci dicono che è del 31,5% la percentuale delle donne fra i 16 e i 70 anni che hanno subito violenza fisica e sessuale nella loro vita. Il 10,5% di queste hanno un’età compresa fra i 25 e i 34 anni, e 4 su 10 sono le donne che hanno subito vessazioni psicologiche a cui sono seguite le violenze. Una dei workshop più interessanti, alla quale ho avuto il piacere di partecipare, insieme ad altri giornalisti di radio, televisione e carta stampata, è stata quella in cui si è analizzato e discusso l’importante ruolo dei media nel trattare temi riguardanti la violenza sulle donne e di come essi possano influire nella creazione di una cultura sessista. A che punto sono arrivate in Europa e, soprattutto, in Italia le politiche tese ad arginare tale fenomeno, e come si possono porre limiti ad una stereotipazione latente che plasma e modella i sistemi cognitivi e valoriali della popolazione? Nella fattispecie, il mio intervento ha analizzato la diffusione di pubblicità sessiste in Italia e la differenza tra il nostro paese ed i paesi nordici, grazie al fatto di aver studiato e lavorato in Svezia per l'Ombudsman contro le discriminazioni.
Uno spunto di riflessione ce lo dà la recentissima pubblicazione del rapporto 2017 del World Economic Forum (WEC) sul Global Gender Gap che stabilisce una classifica dei paesi più virtuosi sulla parità di genere in quattro aree fondamentali: economia, politica, salute e formazione. Secondo il rapporto del WEC nel 2017, l'Italia perde ben 32 posizioni rispetto al  2016 dove si trovava al 50° posto, e 41 posizioni rispetto al 2015 dove si trovava al 41° posto, collocandosi nel 2017 all'82esimo posto su 144 paesi analizzati.
Global Gender Gap Report 2017 - Italy

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fonte: Marco Buemi per http://obiettivo-sostenibile.blogautore.espresso.repubblica.it/