Dress code, applausi intempestivi, telefonini accesi e cravatte preannodate: tutto ciò che avreste sempre voluto sapere su una serata alla Scala ma non avete mai osato chiedere.
Dovrebbe, come sempre, prevalere il buonsenso. Common sense, do you know? Siccome però trattasi di merce rara, rarissima, anzi quasi introvabile, ha un senso aiutare la gente ad avere buonsenso e dare delle regole, in tono magari non ultimativo, perché in fin dei conti è un teatro, non una caserma, ma cogenti e costringenti. Va bene che la sanzione può essere soltanto morale, ma fare la figura dei babbei (altrimenti detti, in quella che dovrebbe essere la lingua ufficiale dell’amato Teatro, il milanese, dei pirla) è una condanna più che sufficiente.
Si parla, ovviamente, di una quaestio assai vexata, che periodicamente riemerge, riesplode, rinviene come i peperoni: il dress code per la Scala (per gli spettatori, s’intende: i professori dell’Orchestra hanno già il loro frac, le maschere – le più eleganti del mondo, per inciso – idem, gli artisti del Coro e del Corpo di ballo i costumi di scena). Escludiamo fin da subito il 7 dicembre. Il Sant’Ambroeus è l’eccezione che non fa la regola, lo smoking per i maschietti è una regola non scritta e di conseguenza osservatissima, la tenuta da gran soirée per le femminucce anche, benché siamo pur sempre a Milano, quindi una sobrietà armaniana o lellacurielesca è preferita alle ostentazioni sberluccicanti delle altre serate di gala che infestano il Paese del melodramma. Un tempo l’eleganza era anche maggiore, tanto più che le prime di parata annuali erano due: oltre l’inaugurazione di stagione, anche quella della Fiera campionaria. Le vette maggiori si toccarono probabilmente nei favolosi Sixties, quando i vaporosissimi abiti da sera delle signore erano così ampi da causare ingorghi e grovigli nei corridoi dei palchi. Quanto all’ultimo frac visto alla Scala, intendo in platea e non sul palco o in buca, le fonti sono discordanti, ma più o meno dovrebbe risalire alla stessa epoca (e anche qui, con molti distinguo: l’ultimo uomo con le code arrivò anche con il cilindro? C’è chi garantisce di sì).
Ma prendiamo una recita normale. Un tempo non lontano, i diversamente giovani lo ricorderanno, sui biglietti c’era un invito alquanto perentorio a presentarsi in giacca e cravatta in platea e palchi, e con l’abito scuro in occasione delle prime rappresentazioni: prime di ogni titolo, non stagionali. Poi venne l’Expo, con la conseguente alluvione turistica: e vuoi che, fra un Albero della vita e una coda al padiglione giapponese, non si facesse una scappata alla Scala? Pretendere la giacca e la cravatta, oltretutto d’estate e in pieno riscaldamento globale, sarebbe stato utopistico, o forse sadico. E così il diktat “sparve”, per dirla in librettese, per essere sostituito da un elegante avviso ben incorniciato in biglietteria che si limitava a vietare canottiere, braghe corte e infradito. Il minino comun denominatore del buonsenso, appunto, con l’aggiunta che il biglietto non sarebbe stato rimborsato allo smutandato rimbalzato davanti alle porte del Tempio. Questo ha comportato, parole di Paolo Besana, Direttore della Comunicazione del Teatro, “un po’ di lavoro in più per le maschere, qualche scenata sporadica e qualche incasso di più per i negozi di abbigliamento della zona che hanno fornito pantaloni lunghi a tempo di record a turisti trafelati, e nel complesso ha posto un argine allo stile Scala-camping o Scala-rave”.
Ma si sa che in Italia le regole non vengono abolite, sostituite o emendate. Semplicemente, svaporano. Col tempo, è capitato anche a questa. Così la Scala ha deciso che repetita iuvant e le maschere sono state invitate a far rispettare, con la solita inflessibile cortesia, le norme già a disposizione di tutti sul sito: “La Direzione invita il pubblico a scegliere un abbigliamento consono al decoro del Teatro, nel rispetto del Teatro stesso e degli altri spettatori”. Seguono i divieti per canottiere e bermuda (ma non per le ciabatte, forse nel frattempo sdoganate dalla moda?), con relativa negazione di rimborso. E questa attualmente è la regola. Il glossatore è però tenuto a commentarla. Ora, adeguare l’abbigliamento all’occasione dovrebbe essere un riflesso condizionato. Prendere esempio dal principe di Salina che, dovendo chiedere la mano di Angelica per il nipote Tancredi a quel villano rifatto di don Calogero, scarta l’abituale redingote nera per una di un lillà scuro, giudicata più conveniente all’occasione presunta festosa. Come diceva Arbasino, non si può pretendere che tutti abbiano lo chic naturale dell’avvocato Agnelli o di Pio XII. Ed è appunto qui che subentra l’etichetta: fornire delle regole di comportamento a chi non sa bene come comportarsi. È un consiglio, non un’imposizione; un aiuto, non un obbligo. E allora pare ovvio mettersi un po’ più eleganti per le prime che per le repliche e per le recite serali che per quelle pomeridiane, men che meno se si accompagnano alla Scala i pupi per quelle per i bambini. Infilarsi una giacca e annodarsi una cravatta, alla fine, non sono cimenti particolarmente impegnativi, e neanche dolorosi.
In nessun teatro del mondo esistono dress code obbligatori. Anzi, nel resto del globo, e in particolare nelle metropoli, prevale il casual. Però, per dire, è estremamente difficile che qualcuno si presenti a Glyndebourne senza smoking (meglio se con un vecchio panama in testa), tanto che a un amico che arrivò con un pur impeccabile abito blu una vecchia bigliettaia svaporata ma ficcante lì dai tempi del primo Christie chiese: “Will you attend the performance?”. Ci si metterà in abito da sera a Bayreuth o a Salisburgo (qui possibilmente “Trachten” come gli indigeni), a una “royal performance” al Covent Garden, alle prime dell’Opéra di Montecarlo indipendentemente dalla presenza di un Grimaldi. Sono tradizioni, non imposizioni. E non hanno nulla di ridicolo, a differenza di una turista in lamé lungo a una matinée alla Scala, impegnata a spararsi selfie con in mano la flûte di champagne per fare l’effetto “sette dicembre”. Essere overdressed è imbarazzante quanto, e forse più, che essere underdressed. Tuttavia, come insegnava Paolo Grassi che di teatro un po’ si intendeva, andarci è un rito che comprende anche la vestizione e che inizia non in platea, ma davanti allo specchio di casa. Infatti, è molto interessante il comportamento delle giovani generazioni che, a differenza del luogo comune, a teatro in generale e alla Scala in particolare ci vanno. E ci vanno eleganti, perché sanno che la Scala è qualcosa di diverso, non dico necessariamente di migliore: di diverso, da un concerto rock o da una discoteca o da un rave. Perfino gli Under 30 che affollano la “primina” del 4 dicembre facendo sdilinquire le croniste dei quotidiani che ogni anno li riscoprono, “che carìììììììììni!”, si presentano con l’abito buono e il papillon (a proposito, miei cari ragazzi, una lezione di vita: preannodato, mai).
Prevalga il buonsenso, allora. E magari anche nel modo di stare a teatro, che alla fine è più importante di come vestircisi. Quindi niente cellulari e no, nemmeno silenziati: devono stare proprio spenti, perché nulla disturba come la luce dello schermo del vicino di poltrona che manda compulsivamente messaggi mentre Tosca accoltella Scarpia (come vorremmo fare noi, ma a lui). Niente chiacchiericcio ad alta voce, ma nemmeno, a ben pensarci, a bassa; niente scartocciamenti di caramelle; niente ansimi né tossi croniche; niente gioielli tintinnanti di signore che trasformano ogni Mozart nella musica per archi, percussione e celesta di Bartók; niente cappelli ingombranti in testa, già vietati a suo tempo da Toscanini; niente cincischiar di carte; niente ravanamenti nelle borsette e, aggiungerei, basta con questa usanza volgarissima di alzarsi in piedi per la standing ovation, tollerabile in rarissime ed eccezionali occasioni, ma ormai diventata abituale togliendole ogni significato. A un’americana che era scattata in piedi davanti a me per acclamare qualcuno che, fra l’altro, non lo meritava affatto, ho dovuto ricordare: “Ma’am, this is not a baseball stadium” (cara bigliettaia di Glynde, il monopolio della stronzaggine non è tuo). E, a proposito di applausi, quando applaudire? La cosa migliore per chi non lo sa è comportarsi come alle cene molto placé, di fronte alla selva oscura delle posate: scegliere un commensale che sa quali usare, e seguirlo. Il tabù di non applaudire se non alla fine della sinfonia si può forse discutere e in ogni caso è del tutto anti-filologico. Ma se succede come a una Paukenmesse natalizia di qualche anno fa, con una platea tutta di turisti che applaude dopo ogni brano, allora diventa sostanzialmente impossibile seguire il concerto e scattano subito le rappresaglie, in quell’occasione, ahimè, solo verbali. Viene voglia di seguire il saggio consiglio di un amico di lungo corso teatrale, irritato per questo intempestivo, invadente, insopportabile battere di mani: “Se le tagliassero”.
Alberto Mattioli
fonte: www.teatroallascala.org/it
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