La ballerina Sabina Galasso, in «pensione» dal 2013 dopo un’intera carriera alla Scala, ricorda un episodio di trent’anni fa: «Fu il giorno di un grande successo, ma forse anche della mia condanna». Era il 1991: il corpo di ballo in attesa che riprendano le prove. «Stavamo lavorando al quarto atto del Lago dei cigni». Una voce risuona nei camerini: «Galasso e B. (altra ballerina, ndr) in sala “Cecchetti”. Subito». Le giovani artiste si precipitano. Trovano due sindacalisti, e intuiscono che sta per accadere qualcosa di inconsueto. L’unico a parlare è Rudolf Nureyev, uno dei più grandi ballerini e coreografi della storia, all’epoca 53 anni e già malato (sarebbe morto di Hiv all’inizio del 1993), venuto da Parigi per «montare» il suo balletto: «Voglio che le due ragazze inizino a studiare da subito per il ruolo principale».
L’investitura di Nureyev
È un’elezione. Un’investitura. In seguito però, quando alla Scala si riallestisce il Lago, ma Nureyev a causa del suo stato di salute non viene a Milano, Sabina Galasso viene «estromessa, anche per ruoli minori, dalle liste dei ballerini firmate dall’allora direttore Giuseppe Carbone». Un’esclusione che la lascia allibita, molto frustrata. E che viene in parte ricordata oggi in una sentenza del Tribunale del lavoro, da poco definitiva, nella quale la Fondazione Teatro alla Scala è stata condannata a risarcire Sabina Galasso con oltre 61 mila euro. La professionista, «il cui talento era stato riconosciuto persino da Nureyev — scrivono i giudici — che la aveva voluta tra i suoi pupilli», negli anni seguenti è stata vittima di comportamenti «discriminatori e vessatori». E ha subito «atteggiamenti molto gravi che denotano l’esistenza di un ambiente di lavoro malsano e un totale disinteresse per le ricadute che ciò poteva avere sulla dipendente».
La battaglia legale
Due sentenze, una di primo grado (2017) e una d’Appello (2021) hanno accertato che alla Galasso sia stato impedito di «crescere e cimentarsi in ruoli più impegnativi», che «in varie occasioni» un ruolo «le sia stato rifiutato per ragioni non attinenti alle sue qualità artistiche», che di fatto non le sia stato permesso di «ballare come gli altri», come disse a fine anni Novanta l’allora Sovrintendente della Scala, Carlo Fontana, al direttore del corpo di ballo, Giuseppe Carbone. «Esortazione palesemente disattesa», chiosano i giudici. L’episodio è stato ricordato in un’udienza da Bruna Radice, storica prima ballerina del Piermarini e per alcuni anni rappresentante sindacale: dopo l’incontro con Fontana, Carbone «ebbe una reazione di stizza; disse, riferendosi alla Galasso, “adesso le cose saranno un po’ più difficili, avrà vita dura”». Se i giudici riconoscono che la ballerina abbia subito «comportamenti non rispettosi della sua dignità», spiegano però che non ci siano prove per delineare un disegno unico con intento persecutorio, e dunque negano che si sia trattato di mobbing. La Scala è stata infatti condannata a risarcire il danno non patrimoniale e l’invalidità (legate a una forte e prolungata depressione) perché non ha rispettato l’obbligo di «tutelare l’integrità fisica e la personalità morale» del lavoratore (articolo 2087 del codice civile).
Le testimonianze delle étoile
La Scala si è sempre difesa in Tribunale dicendo che la ballerina ha continuato la sua carriera senza subire alcun trattamento discriminatorio, e in Appello ha chiesto la restituzione dell’iniziale risarcimento che era stato riconosciuto in primo grado. I legali della ballerina, Emanuele Carta e Sebastiano Bruno Caruso, hanno portato invece in Tribunale una serie di elementi che hanno consentito l’accertamento del danno a partire almeno dal 2005. Nel processo hanno testimoniato ballerini che hanno fatto la storia recente del balletto alla Scala. Michele Villanova, primo ballerino fino al 2010, ha spiegato che l’esclusione della Galasso dalle liste per le prove o la sua sostituzione erano «quasi diventate una costante». Fu lui stesso, nel 2009, trovandosi con la Galasso a lavorare a un balletto per l’Aida, ad andare dal direttore per chiedere che le fosse assegnato un ruolo più adatto e di più alto livello. La risposta fu un insulto.
Chi decide al Piermarini
Agli atti esiste infine una lettera che Patricia Ruanne, maestra di ballo al London festival ballet e all’Opéra di Parigi (dove venne chiamata da Nureyev), poi direttrice alla Scala tra 1999 e 2000, invia nel 2010 al maestro del Piermarini Grigore Vintila: «Mi dispiace molto sapere che Sabina sia caduta in depressione — spiega l’unica direttrice che la Galasso dice di aver sentito vicina — anche se posso ben comprendere come questo sia potuto accadere. È molto difficile per me capire come Carbone abbia la possibilità di influenzare le decisioni artistiche di direttori e coreografi che si susseguono (e ovviamente non sono mai riuscita a comprendere perché abbia sentito il bisogno di distruggere la sua carriera)».
fonte: di Gianni Santucci https://milano.corriere.it © RIPRODUZIONE RISERVATA
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