sabato 26 dicembre 2009

Cinema Dorian Gray


Se il "ritratto" in pellicola non fa giustizia a Dorian Gray
Il Secolo d'Italia

di Domenico Naso

Giù le mani da Dorian Gray. Verrebbe da urlarlo con quanto fiato in gola abbiamo, dopo aver visto l'ennesima trasposizione cinematografica del capolavoro di Oscar Wilde. La storia, scritta nel 1890 e pubblicata l'anno dopo, è un inno, controverso e ambiguo, alla vita sregolata, alla bellezza come motore dell'esistenza e passepartout ai piaceri della carne e dello spirito. È la storia di un giovane bello e affascinante, iniziato all'estetismo integralista da Henry Wotton, quello che oggi definiremmo un "cattivo maestro". Dorian non invecchia, a differenza di un suo ritratto dipinto da un amico artista, e conduce una vita al limite, abbandonandosi a ogni trasgressione, al sesso estremo e sadomaso, alla promiscuità e alle esperienze omosessuali, usando il proprio aspetto come "arma di distruzione di massa" tra la società benpensante e un po' ottusa della Londra vittoriana. Ma i rimorsi, e come potrebbe essere altrimenti, riaffiorano e spingono il giovane Gray a distruggere il dipinto e dunque anche se stesso, offrendo a chi troverà il cadavere la vista di un uomo improvvisamente avvizzito e distrutto dai vizi, vecchio e spento, distante dall'immagine gagliarda che aveva regalato al mondo.Paradigma del libertinismo decadente, il libro di Wilde ha rappresentato per intere generazioni una guida, un vero e proprio "bignami" del "fa' ciò che vuoi". Proprio per l'incredibile notorietà dell'opera letteraria, il film di Oliver Parker (regista che si era già misurato con l'universo wildiano in L'importanza di chiamarsi Ernesto e Un marito ideale) era molto atteso da pubblico e critica. Ci si aspettava molto, meglio chiarirlo subito. Ma Parker ha trasformato la vicenda del giovane londinese in un mix malriuscito tra un horror di serie B e l'ennesima riproposizione dicotomica tra dottor Jekyll e mister Hyde. Manca, nel film, tutto l'afflato libertino tipico di Wilde, l'eterno dissidio tra voglia di vivere all'estremo e sensi di colpa, l'effetto cloroformizzante del piacere fine a se stesso, che in fondo serviva a Gray come antidoto alla triste solitudine di una vita vuota. E poi Ben Barnes, il giovane attore protagonista già visto nel secondo capitolo della saga di Narnia, sarà anche bello, ma ha a sua disposizione, al massimo, due o tre espressioni facciali. Troppo poco per chi doveva interpretare uno dei personaggi più sfaccettati, maledetti ed estremi della storia della letteratura mondiale. Per fortuna c'è Colin Firth, perfetto nel ruolo di Henry Wotton, a risollevare le sorti di una pellicola francamente deludente, poco aderente allo spirito originale dell'opera. Uno spirito ambivalente, volutamente ambiguo per insinuarsi senza troppi traumi nella società inglese dell'epoca. Se da un lato, infatti, Wilde regala ai lettori un vero e proprio manifesto dell'edonismo estetico di chiaro stampo decadente, dall'altro inserisce elementi morali e addirittura moralisti, ricalcando in questo senso la storia di Faust. Il patto con l'eternità è frutto della corruzione morale dei salotti vittoriani, del principio secondo cui la bellezza è una chiave che apre tutte le porte. Ma da Oscar Wilde non arrivano sermoni, prediche e condanne morali. Nella prefazione all'opera, vero e proprio manifesto dell'estetismo, lo scrittore inglese definisce a modo suo, e in maniera netta, il rapporto che deve esserci tra etica e arte: «L'artista non ha convinzioni etiche. Una convinzione etica in un artista è un imperdonabile manierismo di stile». Punto e a capo, dunque. Alla ricerca del piacere, di quell'edonismo che in Wilde non è mai stato pura ricerca di attimi di godimento ma mappa del tesoro da seguire per tutta l'esistenza. È marchio a fuoco sulla carne viva, è scelta di vita e di arte.È Lord Wotton, nel libro così come nel film, a farsi portavoce di queste istanze, con frasi e battute che sono rimaste nel linguaggio comune. «Per tornare alla gioventù non c'è che da ripeterne le follie», sentenzia il cattivo maestro. E il giovane Gray lo prende in parola, va addirittura oltre, fino al punto che lo stesso Wotton si rende conto che la misura è colma. C'è pentimento e rimorso, dunque, in entrambi i personaggi principali. Ma non si confonda questo artificio narrativo venato di moralismo con l'abiura di Wilde dei principi tipici del decadentismo. L'esteta, anche se conscio dei suoi "errori", non può rinnegare il piacere e il culto della bellezza. Ne segue il sentiero tumultuoso, pur sapendo che lo porterà inevitabilmente all'autodistruzione. È la vita di corsa, breve ma intensa, tipica di una certa cultura decadente e ultralibertaria. È la vita dei divi del rock o dei miti di Hollywood. Dorian Gray non è altro che Marylin Monroe, James Dean, Jim Morrison, Jimi Hendrix o Kurt Cobain tanto per citarne alcuni. È la bellezza che si fa arte e attraverso l'arte si consuma. In poco tempo, ovviamente, perché la sua intensità è tale da non aver bisogno di arrivare alla vecchiaia. Nel film di Parker, però, tutto questo non c'è. Ecco perché non può piacere a chi ha sempre visto in Oscar Wilde il cantore di questo modo di vivere. Si è preferito confezionare un prodotto cinematografico che potesse accontentare il pubblico, più che la critica. Scelta lecita, per carità, dettata dalle regole dello showbiz e che probabilmente pagherà in termini di riscontro. Ma quando si mette mano a un'opera come Il ritratto di Dorian Gray non si può prescindere dalle atmosfere, dal messaggio, dallo sfondo, dal turbinio di sensazioni carnali, umane, troppo umane.Al centro di tutto c'è la giovinezza, motore del piacere. E vogliamo chiudere proprio con un inno alla giovinezza e al carpe diem, un brano del libro originale che meglio di qualsiasi film ne descrive lo spirito più intimo: «Quando la giovinezza se ne sarà andata - si legge nelle pagine - la sua bellezza la seguirà e improvvisamente si renderà conto che non ci saranno più trionfi per lei, oppure dovrà accontentarsi di quei mediocri trionfi che il ricordo del passato renderà più amari di sconfitte. Ogni mese che passa la avvicina a qualcosa di tremendo. Il tempo è geloso di lei e combatte contro i suoi gigli e le sue rose. Il suo colorito si spegnerà, le guance si incaveranno, gli occhi perderanno luminosità. Soffrirà, orrendamente... Ah! Approfitti della giovinezza finché la possiede. Non sprechi l'oro dei suoi giorni ascoltando gente noiosa, cercando di migliorare un fallimento senza speranza o gettando la sua vita agli ignoranti, alla gente mediocre, ai malvagi. Questi sono gli obbiettivi malsani, i falsi ideali della nostra società. Deve vivere! Vivere la sua vita meravigliosa che è in lei! Non lasci perdere nulla! Cerchi sempre sensazioni nuove. Non abbia paura di nulla».Inutile a nostro avviso aggiungere altro. Questo è Il ritratto di Dorian Gray, questo è Oscar Wilde e questa è la sua poetica "immortale". Qualcuno, per favore, lo spieghi (o lo ricordi) anche ai registi di Hollywood.
Pubblicato da notiziegay.it

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