venerdì 10 luglio 2020

“The Death and Life of Marsha P. Johnson”. Recensione di Anna Cordioli

Il 28 giugno 1969 fu una data storica per i diritti umani, perché vide iniziare i “Moti di Stonewall”, ovvero la rivolta spontanea della comunità Gay di New York le continue angherie da parte della polizia. L’anno successivo, in quella stessa data, si celebrò il primo GayPride della storia.

Quest’anno si festeggia dunque un anniversario importante, il cinquantesimo, di quella prima manifestazione pacifica che segnò ufficialmente la nascita del movimento LGBT ma,  a causa della pandemia in corso, la commemorazione e le attività a favore di una società più inclusiva si sono spostate principalmente sui social media. Tale spostamento e la “sparizione del corpo” hanno però lasciato ampio margine ad attacchi di “haters” contro i  contenuti LGBT: “Homo homini lupus: chi ha coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?” (Freud, 1929)

Tra i tanti ottimi titoli messi in rotazione da Netflix sull’argomento LGBT si trova il documentario “Morte e vita di Marsha P. Johnson”, che ci permette di riflettere su molte questioni, tutt’altro che risolte.

Marsha Johnson era una persona transessuale che partecipò ai moti di Stonewall, per oltre vent’anni figura di riferimento nella comunità newyorkese e musa di Andy Warhol. Fondò una casa di accoglienza per ragazzini/e trans che vivevano in strada e, assieme a Sylvia Rivera, il movimento STAR (Street Transvestite Action Revolutionaries) per denunciare la condizione di povertà e degrado in cui erano costrette le persone trans. Marsha fu trovata morta il 6 luglio 1992 e il caso fu archiviato come suicidio, ma nessuno credette a questa versione e il funerale di Marsha si trasformò in un corteo di protesta contro un sistema a cui non interessava affatto fare luce e giustizia sulla morte di un “uomo in abiti da donna” (dicitura irrispettosa apparsa anche di recente sui giornali per descrivere una vittima trans o genderqueer).

Il documentario si apre proprio con quel corteo, che non chiede giustizia solo per Marsha, ma anche per tutti i casi di questo tipo di omicidi finiti archiviati. Per dirla con Fedidà (2001): “Ciò di cui si tratta è piuttosto sul piano della Scomparsa e non tanto su quello della perdita e del lutto”. Ed il lavoro del lutto necessita di un recupero di senso e di condivisione.
Il documentario ha un’impalcatura ambiziosa che segue tre diverse linee narrative: la storia delle lotte per il riconoscimento dei diritti civili delle persone trans, la storia delle indagini sulla morte di Marsha e la storia di un processo per l’omicidio di una ragazza trans, uno dei tanti, che si svolge nel presente.

Ci vengono mostrate le immagini di quel primo GayPride del 1970, in cui Marsha sfilava sorridente, con uno spolverino chiaro e un bellissimo cappello peloso. Al suo fianco, Sylvia, con una tutina che divenne iconica, con gli occhi torvi e arrabbiati. Solo alla fine della giornata riuscirono a salire sul palco per parlare alla folla e Sylvia venne crudelmente fischiata. Quel pezzo di storia, quel grido di rabbia così amaro, durante una giornata tanto importante per i diritti umani, va conosciuto e continuamente ripensato. Non solo la società occidentale, ma neppure la nascente comunità LGBT era stata  pronta ad accogliere la diversità che Marsha e Sylvia mostravano al mondo. Freud scriveva nel 1929: “Sono tre le fonti da cui proviene la nostra sofferenza: la forza soverchiante della natura, la fragilità del nostro corpo e l’inadeguatezza delle istituzioni che regolano le reciproche relazioni degli uomini […] Circa la terza fonte di sofferenza […] non vogliamo ammetterla, non riusciamo a comprendere perché le istituzioni da noi stessi create non debbano essere piuttosto una protezione e un beneficio per tutti”.

È sicuramente amaro riconoscere che nessun diritto civile è stato concesso per il buon cuore della maggioranza, ma è giunto sempre attraverso la rivolta degli oppressi; invece è necessario riconoscere che esistono nell’uomo istanze crudeli e distruttive. Questa consapevolezza è indispensabile per poi rinunciare alla scissione e fare lo sforzo di creare le condizioni per la costruzione di nuovi legami più umanizzanti.

Il documentario ci accompagna poi dal 1970 al 1992, anno in cui Marsha viene trovata morta. Ci racconta la storia di questa creatura unica, amata da molti ma anche molto, troppo, in vista. La natura l’aveva dotata di un corpo solido e slanciato e lei sapeva esaltare la sua fisicità in modi inaspettati. Marsha mostra il suo viso truccato, con una “nudità dignitosa” (Levinas, 1982) senza una vera ostentazione, ma con la gioia dolce e quasi infantile di sentirsi guardati, il sorriso aperto e disarmante. L’incontro con questo volto ci impone lo sforzo del vero riconoscimento dell’Altro, della sua domanda d’incontro, del suo essere una persona “altra da me”, misteriosa e libera. È sempre Levinas (1993) che ci ricorda che “il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa”.
Forse per questo le persone trans hanno subito e subiscono i rifiuti più netti dalla società, perché da subito ci impongono la fatica di non poterli subito inquadrare, definirei con un’unica parola, al primo pigro sguardo, alla definizione (difensiva) che se ne dà.

Il documentario aiuta anche a comprendere l’importanza del linguaggio: impercettibilmente, man mano che la storia si snoda, alcune parole cadono in disuso e ne appaiono di nuove. Ad esempio negli anni novanta “travestito” e “transessuale” venivano usati come sinonimi mentre, nelle sequenze più recenti, le due parole vengono distinte e appaiono termini come “transgender” e “cisgender”. Non mi soffermo a spiegare le notevoli differenze tra questi termini, ma vorrei solo sottolineare che l’evolversi del linguaggio ci testimonia l’importanza profonda che ha avuto in questi cinquant’anni l’incontro con il “Volto dell’Altro” e con la sua “fame” (Levinas, 1982) di vita.

Questa evoluzione è soprattutto frutto del processo di autoconsapevolezza che le persone trans hanno potuto intraprendere quando hanno sentito di non essere sole. Scoprirsi parte di una comunità, sentire di non doversi sempre nascondere, potersi confrontare con gli altri, ha avviato un importante processo di soggettivazione, in cui la questione di chiedersi cosa significa “essere sé stessi” non si lascia risolvere da una definizione esterna e alienante, ma idealmente non si pone affatto (Andrè, 2004).
Questo accade mentre si guarda “Morte e vita di Marsha P. Johnson”: gli intervistati non sono “solo” trans, ma sono persone che testimoniano che vita si vive se si viene visti solo come trans. In questo stanno la disperazione e l’ingiustizia.

Il 6 luglio saranno passati ventotto anni dalla morte di Marsha: gli haters vorrebbero che non se ne parlasse e invece…

The Death and Life of Marsha P. Johnson | Official Trailer [HD] | Netflix clicca QUI

Bibliografia
Andrè  J. (2004). L’impréveu en séance. Gallimard, Paris.
Freud S. (1929). Il disagio della civiltà. OSF, 10.
Fedidà P. (2001). Il buon uso della depressione. Milano, Einaudi, 2002.
Levinas E. (1993). Dio, la morte e il tempo” .Milano, Jaca Book, 1996.
Lévinas E. (1982). Etica e Infinito. Roma. Castelvecchi, 2012.
Luglio 2020
fonte:  Autore: Anna Cordioli /www.spiweb.it

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