Il 28 giugno 1969 fu una data storica per i diritti umani, perché
vide iniziare i “Moti di Stonewall”, ovvero la rivolta spontanea della
comunità Gay di New York le continue angherie da parte della polizia.
L’anno successivo, in quella stessa data, si celebrò il primo GayPride della storia.
Quest’anno
si festeggia dunque un anniversario importante, il cinquantesimo, di
quella prima manifestazione pacifica che segnò ufficialmente la nascita
del movimento LGBT ma, a causa della pandemia in corso, la
commemorazione e le attività a favore di una società più inclusiva si
sono spostate principalmente sui social media. Tale spostamento
e la “sparizione del corpo” hanno però lasciato ampio margine ad
attacchi di “haters” contro i contenuti LGBT: “Homo homini lupus: chi ha coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?” (Freud, 1929)
Tra i tanti ottimi titoli messi in rotazione da Netflix sull’argomento LGBT si trova il documentario “Morte e vita di Marsha P. Johnson”, che ci permette di riflettere su molte questioni, tutt’altro che risolte.
Marsha
Johnson era una persona transessuale che partecipò ai moti di
Stonewall, per oltre vent’anni figura di riferimento nella comunità
newyorkese e musa di Andy Warhol. Fondò una casa di accoglienza per
ragazzini/e trans che vivevano in strada e, assieme a Sylvia Rivera, il movimento STAR (Street Transvestite Action Revolutionaries) per denunciare la condizione di povertà e degrado in cui erano costrette le persone trans.
Marsha fu trovata morta il 6 luglio 1992 e il caso fu archiviato come
suicidio, ma nessuno credette a questa versione e il funerale di Marsha
si trasformò in un corteo di protesta contro un sistema a cui non
interessava affatto fare luce e giustizia sulla morte di un “uomo in
abiti da donna” (dicitura irrispettosa apparsa anche di recente sui
giornali per descrivere una vittima trans o genderqueer).
Il
documentario si apre proprio con quel corteo, che non chiede giustizia
solo per Marsha, ma anche per tutti i casi di questo tipo di omicidi
finiti archiviati. Per dirla con Fedidà (2001): “Ciò di cui si tratta è piuttosto sul piano della Scomparsa e non tanto su quello della perdita e del lutto”. Ed il lavoro del lutto necessita di un recupero di senso e di condivisione.
Il
documentario ha un’impalcatura ambiziosa che segue tre diverse linee
narrative: la storia delle lotte per il riconoscimento dei diritti
civili delle persone trans, la storia delle indagini sulla morte di Marsha e la storia di un processo per l’omicidio di una ragazza trans, uno dei tanti, che si svolge nel presente.
Ci vengono mostrate le immagini di quel primo GayPride
del 1970, in cui Marsha sfilava sorridente, con uno spolverino chiaro e
un bellissimo cappello peloso. Al suo fianco, Sylvia, con una tutina
che divenne iconica, con gli occhi torvi e arrabbiati. Solo alla fine
della giornata riuscirono a salire sul palco per parlare alla folla e
Sylvia venne crudelmente fischiata. Quel pezzo di storia, quel grido di
rabbia così amaro, durante una giornata tanto importante per i diritti
umani, va conosciuto e continuamente ripensato. Non solo la società
occidentale, ma neppure la nascente comunità LGBT era stata pronta ad
accogliere la diversità che Marsha e Sylvia mostravano al mondo. Freud
scriveva nel 1929: “Sono tre le fonti da cui proviene la nostra
sofferenza: la forza soverchiante della natura, la fragilità del nostro
corpo e l’inadeguatezza delle istituzioni che regolano le reciproche
relazioni degli uomini […] Circa la terza fonte di sofferenza […] non
vogliamo ammetterla, non riusciamo a comprendere perché le istituzioni
da noi stessi create non debbano essere piuttosto una protezione e un
beneficio per tutti”.
È sicuramente amaro riconoscere che
nessun diritto civile è stato concesso per il buon cuore della
maggioranza, ma è giunto sempre attraverso la rivolta degli oppressi;
invece è necessario riconoscere che esistono nell’uomo istanze crudeli e
distruttive. Questa consapevolezza è indispensabile per poi rinunciare
alla scissione e fare lo sforzo di creare le condizioni per la
costruzione di nuovi legami più umanizzanti.
Il documentario ci
accompagna poi dal 1970 al 1992, anno in cui Marsha viene trovata morta.
Ci racconta la storia di questa creatura unica, amata da molti ma anche
molto, troppo, in vista. La natura l’aveva dotata di un corpo solido e
slanciato e lei sapeva esaltare la sua fisicità in modi inaspettati.
Marsha mostra il suo viso truccato, con una “nudità dignitosa” (Levinas,
1982) senza una vera ostentazione, ma con la gioia dolce e quasi
infantile di sentirsi guardati, il sorriso aperto e disarmante.
L’incontro con questo volto ci impone lo sforzo del vero riconoscimento
dell’Altro, della sua domanda d’incontro, del suo essere una persona
“altra da me”, misteriosa e libera. È sempre Levinas (1993) che ci
ricorda che “il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella
sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile,
si muta in resistenza totale alla presa”.
Forse per questo le persone trans hanno
subito e subiscono i rifiuti più netti dalla società, perché da subito
ci impongono la fatica di non poterli subito inquadrare, definirei con
un’unica parola, al primo pigro sguardo, alla definizione (difensiva)
che se ne dà.
Il documentario aiuta anche a comprendere
l’importanza del linguaggio: impercettibilmente, man mano che la storia
si snoda, alcune parole cadono in disuso e ne appaiono di nuove. Ad
esempio negli anni novanta “travestito” e “transessuale” venivano usati
come sinonimi mentre, nelle sequenze più recenti, le due parole vengono
distinte e appaiono termini come “transgender” e “cisgender”. Non mi
soffermo a spiegare le notevoli differenze tra questi termini, ma vorrei
solo sottolineare che l’evolversi del linguaggio ci testimonia
l’importanza profonda che ha avuto in questi cinquant’anni l’incontro
con il “Volto dell’Altro” e con la sua “fame” (Levinas, 1982) di vita.
Questa evoluzione è soprattutto frutto del processo di autoconsapevolezza che le persone trans
hanno potuto intraprendere quando hanno sentito di non essere sole.
Scoprirsi parte di una comunità, sentire di non doversi sempre
nascondere, potersi confrontare con gli altri, ha avviato un importante
processo di soggettivazione, in cui la questione di chiedersi cosa
significa “essere sé stessi” non si lascia risolvere da una definizione
esterna e alienante, ma idealmente non si pone affatto (Andrè, 2004).
Questo accade mentre si guarda “Morte e vita di Marsha P. Johnson”: gli intervistati non sono “solo” trans, ma sono persone che testimoniano che vita si vive se si viene visti solo come trans. In questo stanno la disperazione e l’ingiustizia.
Il 6 luglio saranno passati ventotto anni dalla morte di Marsha: gli haters vorrebbero che non se ne parlasse e invece…
The Death and Life of Marsha P. Johnson | Official Trailer [HD] | Netflix clicca QUI
Bibliografia
Andrè J. (2004). L’impréveu en séance. Gallimard, Paris.
Freud S. (1929). Il disagio della civiltà. OSF, 10.
Fedidà P. (2001). Il buon uso della depressione. Milano, Einaudi, 2002.
Levinas E. (1993). Dio, la morte e il tempo” .Milano, Jaca Book, 1996.
Lévinas E. (1982). Etica e Infinito. Roma. Castelvecchi, 2012.
Luglio 2020
fonte: Autore: Anna Cordioli /www.spiweb.it
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venerdì 10 luglio 2020
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