In cinque decenni di musica e cultura l'artista inglese ha attraversato generi e anticipato mode, con la rara dote di rinascere dai propri errori
Per qualcuno era ancora il Duca Bianco, altri non possono fare a meno di ricordarlo come Ziggy Stardust. Per la critica “Heroes” e la trilogia berlinese sono uno dei punti più alti del pop moderno, ma la gente è impazzita soprattutto per le hit laccate come “Let’s Dance” e “China Girl”, i suoi veri successi stellari a livello di numeri.
Ognuno ha avuto il proprio David Bowie, perché David Bowie ha attraverso cinque decenni di musica muovendosi continuamente tra stili, personaggi, ispirazioni.
Non solo musicista ma anche attore e mimo, allievo di Lindsay Kemp e protagonista di film di culto come “L’uomo che cadde sulla terra” e “Miriam si sveglia a mezzanotte”. Popstar e rockstar sono definizioni limitanti per uno dei pochi che si è guadagnato a ragion veduta l’appellativo di artista. Parlando di lui si utilizza spesso il termine “camaleonte” per riassumerne le continue mutazioni.
Ma il camaleonte si adegua ai colori dello sfondo per mimetizzarsi, lui i colori invece li sceglieva e a volte sembrava inventarli.
Perché i molteplici mondi che ha attraversato sono sempre stati filtrati attraverso la sua visione, il suo modo di fare musica con un marchio di fabbrica indelebile nel creare melodie e impastare armonie. Da “Space Oddity” (1969) all’ultimo “Blackstar” c’è un filo rosso che unisce tutti i lavori di Bowie, ed è rappresentato dalla sua voce e dalla sua scrittura. Capaci di far propri stili e generi diversissimi: dal glam rock sessualmente ambiguo di Ziggy e “Aladdin Sane” alle atmosfere black fumose del philly sound di “Young Americans”; dall’algida elettronica di “Low” e “Heroes” (realizzati con Brian Eno) al pop di avanguardia di “Scary Monsters”.
Moltissimi personaggi chiave del rock moderno sono passati da Bowie e a lui devono qualcosa: ha lanciato Lou Reed dopo la fine dei Velvet Underground producendo quel capolavoro che è “Transformer”, ha fatto rinascere Iggy Pop mettendosi persino al suo servizio come tastierista nei concerti. I Queen e Mick Jagger hanno duettato con lui, i Nirvana hanno portato ai ragazzi degli anni 90 un pezzo ("The Man Who Sold The World") che lui si era permesso il lusso di aver dimenticato.
Nei suoi anni 70 c’è tutto: una furia creativa che portò a 12 album, talmente vari e pieni di perle che molti artisti, anche blasonati non riuscirebbero a eguagliare in tre vite. Eppure alla fine di quel decennio Bowie aveva solo 33 anni. E infatti ricominciò da zero, per ottenere quello che ancora gli mancava: il successo planetario. Con “Let’s Dance” l’artista di culto (e dei culti esoterici) si trasformò nella popstar capace di riempire stadi e sbancare le classifiche.
Un successo tale da fargli perdere contatto con la propria realtà artistica, al punto che lui stesso confessò che in quegli anni “perdeva più tempo a correre dietro alle ragazzine che a scrivere canzoni”. Ma se Bowie è passato indenne da una generazione all’altra, capace di resistere anche a rivoluzioni come quella punk e grunge, è stato per la capacità di utilizzare anche i momenti bui come spunto creativo, per rinascere.
I suoi anni 90 sono stati caratterizzati da un album sperimentale e coraggioso come “Outside” (ancora con l’aiuto di Brian Eno), e da fughe in avanti in generi in non certo pop come l’industrial (con uno straordinario tour insieme a Nine Inch Nails) o il drum’n’bass con “Earthling”.
A differenza di altri artisti la sua perdita lascia un vuoto non solo per il passato ma anche per il presente. Se ci aveva in qualche modo abituati alla sua assenza con un silenzio di dieci anni dopo l’attacco di cuore del 2004, il ritorno era stato così artisticamente vitale da rimetterlo al centro della scena come punto di riferimento, ben sapendo che in realtà giocava in un campionato tutto suo. Così come il suo amico Freddie Mercury, consumato dall’Aids, aveva continuato a cantare fino all’ultimo con una voce potente e cristallina, in 18 mesi di malattia Bowie invece che essere offuscato, ha tirato fuori la testimonianza definitiva di ciò che è stato: “Blackstar” è un album diverso da ciò che si sente in giro, spiazzante. Profondamente suo. Capace di trasformare in arte persino la morte.
A volerlo leggere era tutto lì, dalla stella nera del titolo all’ultimo video di “Lazarus”: il viso tirato e scavato, che in alcune inquadrature non nascondeva nulla del male che lo consumava. Il Bowie uomo con la morte ci è venuto a patti, dopo averci persino flirtato, consumato dalla cocaina a metà anni 70. Ma l’arte di Bowie la morte non sa cosa sia.
fonte: http://mobile.tgcom24.it/checkexistpage.shtml?/spettacolo/speciale-david%20bowie/david-bowie-capace-di-trasformare-in-arte-persino-la-propria-morte_2153556-201602a.shtml
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