mercoledì 12 agosto 2020

USA> Kamala Harris: candidata non per caso

Implacabile. Lo spirito della senatrice Kamala Harris, appena scelta da Joe Biden come sua vice-presidente nella corsa elezioni presidenziali americane del 3 novembre, può essere riassunto in questo unico aggettivo. Che finalmente non è inteso in modo negativo, pur caratterizzando una donna e non un uomo, ma come un pregio, una caratteristica personale fondamentale per potere sconfiggere il prossimo 3 novembre Donald Trump.

Implacabile come pubblica accusa, implacabile con i criminali di ogni colore, implacabile in senato con i politici bugiardi e irresponsabili. Harris prende la parola con il sorriso ma non molla mai la presa. «Il sistema penale americano è imperfetto e va riformato», rispondeva lei ai critici del suo operato duro come procuratore distrettuale della California: «Ma non vogliamo che chi compie gesti gravi non subisca le conseguenze, anche gravi».

La chiamano “killer”, e c'è una parte dell'estrema sinistra americana – ma non Bernie Sanders che su Twitter l'ha subito appoggiata – che la definisce traditrice dei valori progressisti. Che dice si rifiuterà di votarla nel ticket con Joe Biden perché anche questi due candidati presidenziali, aldilà dele colore della pelle, come le coppie che li hanno preceduti, sono figli delle élite liberiste. Non abbastanza a sinistra.

Eppure Harris incarna alla perfezione lo spirito americano originale, in versione contemporanea. Lo spirito di chi l'"America" l'ha costruita pezzo dopo pezzo. Prima generazione di americani (inaudito per una persona candidata alla vicepresidenza), figlia di una ricercatrice indiana trasferitasi da sola in California per studiare a 19 anni e di un padre giamaicano che, dopo il master, è stato professore di Economia a Stanford per oltre 20 anni, è diventata bambina mangiando pane e lotta per un mondo migliore. I genitori si sono incontrati durante una delle storiche marce degli anni Settanta e, anche dopo il loro divorzio quando lei aveva solo quattro anni, la madre, scienziata e ricercatrice nella lotta contro il cancro, a Oakland, la sorella povera di san Francisco, ha continuato a crescere lei e la sorella minore con l'ambizione che servissero la società e costruissero un mondo migliore. Senza filtri. Senza dubbi. Kamala e Maya si sono entrambe laureate in legge nelle migliori università americane e hanno preso a lavorare l'una come pubblico ministero, l'altra come professore e consulente politica, fino ad arrivare ai vertici della loro carriera, sempre al servizio della causa democratica.

Ma la scelta di Harris è anche il miracolo ottenuto dall'incrociarsi di due storiche battaglie per i diritti civili contemporanei che hanno coinvolto milioni di americani: #metoo e #BlackLivesMatter. Gli ultimi quattro anni di presidenza Trump non sono stati invano. Hanno accelerato quel processo già in corso da anni per cui le minoranze etniche degli Stati Uniti, le nuove generazione di immigrati, ormai ben lontani dalle radici europee e in maggioranza non bianchi, e le donne, quella seconda metà del cielo a cui Washington non garantisce ancora una maternità pagata, hanno lasciato il fondo della società professionale per avanzare in primo piano. Il disprezzo dimostrato dall'attuale presidente americano verso il sesso femminile fin dal primo giorno in carica e poi verso le vite dei cittadini di colore ha rafforzato, non solo sul suolo americano ma, come trent'anni fa, in tutto l'Occidente, la lotta per la conquista di ruoli di primo piano nella società, nell'economia e nella politica. Con l'obiettivo di cambiarle dall'interno e di renderle, se non più giuste, almeno più eque.

In questo senso Kamala Harris è il prodotto di questi quattro anni di regime trumpista. Ma la sua nomina molto deve anche alle donne più anziane che le hanno tracciato il sentiero su cui camminare: Hillary Clinton, ostacolata più che aiutata nelle sue ambizioni da un marito presidente popolarissimo, e Elizabeth Warren, paladina anziana e forte di quella sinistra che nell'America moderna non ha ancora trovato posto o riconoscimento e che è stata protagonista della “rivoluzione dai cappelli di lana rosa”, in cui più generazioni e etnie di donne si sono ritrovate insieme a rivendicare spazio e voce. E a centinaia, quattro anni fa, hanno deciso che fosse arrivato  il momento di fare politica sul serio.

Harris in realtà parte perdente. Ha perso la battaglia alla nomination come presidente democratico, esattamente come Warren. Ma il giorno in cui sul palcoscenico democratico rimasero  solo due vecchi, uomini bianchi, Sanders e Biden, è stato anche il momento in cui i democratici americani si sono resi conto che quella fotografia non avrebbe mai più potuto rappresentare il futuro che raccontavano. È stato il momento in cui mesi e anni di lotta si sono concretizzati in un'assenza ingombrante. Le donne non potevano più essere escluse. Non più essere stigmatizzate perché troppo volitive, troppo forti, troppo presenti.

E se, nonostante tutto, entrare dalla porta principale anche negli Stati Uniti non è ancora accettato, allora ben venga l'entrata laterale che sta facendo Harris: la corsa come vicepresidente giovane di un presidente vecchio. Certamente un cliché ma accettabile per la maggioranza della popolazione. E, soprattutto, se vincente, il viatico tanto sospirato per una futura presidenza americana al femminile. Sarà mai che l'eredità potente di Angela Merkel potrà un giorno essere raccolta da Kamala Harris, dall'altra parte dell'Oceano?

fonte:  di Federica Bianchi  http://bianchi.blogautore.espresso.repubblica.it

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