mercoledì 1 maggio 2013

Lgbt Sport USA: Il coming out di Jason Collinse la liberazione di dire “sono gay”


"La lettera del giocatore Nba mostra cosa significa nascondere la propria omosessualità e perché l'orientamento sessuale non è una questione di privacy. Non solo per gli sportiv"

Jason Collins è un gigante nero di 2 metri e 13 per 116 chili a cui piace il gioco aggressivo, cestista professionista nell’Nba americana dal 2001. Però si è descritto come un bambino : “Vorrei non essere il ragazzino che in classe alza la mano e dice: ‘Sono differente’. Se fosse andata come volevo io, lo avrebbe già fatto qualcun altro.
Ma non l’ha fatto nessuno ed è per questo che alzo la mano“. La sua mano in aria è un articolo su Sport Illustrated che inizia così: “Sono un pivot 34enne dell’Nba. Sono nero. E sono gay“.
Da ieri Jason Collins è diventato il primo sportivo professionista americano ancora in attività a fare coming out.

Quando un personaggio famoso dichiara pubblicamente la propria omosessualità, molte persone reagiscono quasi con fastidio: “è un fatto privato, perché lo deve andare a raccontare a tutti”, è il ritornello (in Italia dopo il coming out di Tiziano Ferro è stato recitato come una cantilena anche da voci illustri).
Le parole di Collins invece mostrano bene che non è così: sono uno squarcio su cosa significa nascondere la propria sessualità, vivere con un “segreto” che si teme gli altri possano scoprire per poi abusarne. Svelano la paura che quella parte di sé diventi l’unica cosa che gli altri vedono e il dilemma che si trovano a vivere gay e lesbiche in un mondo in cui tendiamo a dare per scontato che tutti siano (o debbano essere) eterosessuali.

Collins ha raccontato che la prima persona a cui ha detto di essere gay è stata una sua zia, magistrato a San Francisco. “Da quel momento ho iniziato a stare a mio agio nella mia pelle.
In sua presenza per la prima volta ho potuto ignorare il mio pulsante della censura“, scrive il giocatore Nba.
“Il sollievo che ho sentito è stata una dolce liberazione”.
Altro che un un atto di discrezione: non poter esplicitare mai la propria omosessualità è un’autocensura costante, un faticoso esercizio di autocontrollo, la continua sovrapposizione di un filtro fra sé e gli altri, teso a evitare le conseguenze negative dei pre-giudizi. Vuol dire non poter mai essere spontanei: per paura, non per amore della privacy.

Collins, che è nero, paragona gli effetti dell’omofobia a quelli del razzismo: “Mia nonna materna era preoccupata per il mio progetto di fare coming out. E’ cresciuta nella provincia della Louisiana e ha vissuto gli orrori della segregazione razziale.
Durante gli anni del movimento per i diritti civili ha visto grandi atti di coraggio in mezzo agli aspetti più deteriori dell’umanità. Temeva che mi sarei sottoposto all’odio e al pregiudizio. Le ho spiegato che in questo senso il mio coming out è preventivo. E’ un annuncio che sta a me fare, non al sito di gossip Tmz”.

Ora che non deve più sforzarsi di nascondersi, Collins sa che a 34 anni può finalmente capire chi è. “Sto imparando ad apprezzare il puzzle che sono io”, spiega. “Sono fiero di essere un afroamericano e consapevole del peso del passato che ancora oggi ci portiamo dietro. Ma non voglio che il colore della mia pelle definisca tutto quello che sono, come non voglio che lo faccia il mio orientamento sessuale. Non voglio essere etichettato, non voglio che mi definiscano le etichette di qualcun altro”, scrive Collins. Ben sapendo che uno dei tanti effetti della discriminazione è ridurre chi ne è oggetto a un solo aspetto di sé. Se una parte dell’identità di un individuo è “problematica” perché gli altri non la accettano, o “strana” perché lo differenzia dalla maggior parte della gente, spesso finisce per diventare l’unica parte di quella persona che gli altri vedono. Eppure c’è molto di più.

Il coming out di Collins aiuterà a capire che le identità sono complesse, che si può essere giocatori aggressivi e anche gay, che gli sterotipi sugli omosessuali sempre carini – per esempio – sono solo tali. Dovrebbe essere scontato, ma non lo è. Forse perché in un certo mondo dello sport c’è ancora tanto machismo, forse perché colleghiamo ancora le caratteristiche che servono a vincere con tratti tradizionalmente maschili – e non è un caso se i coming out di peso finora sono venuti soprattutto da atlete donne, come Martina Navratilova, e in sport individuali dove non c’è bisogno di cameratismo.

L’anno scorso una battuta di Antonio Cassano aveva scatenato molte polemiche. «Froci in nazionale? Speriamo di no», aveva detto usando la parola denigratoria per i gay. Molti lo avevano difeso, sostenendo che non spetta a un calciatore essere politicamente corretto. Non era questione di correttezza esangue: Cassano stava dicendo a tutti i ragazzini gay italiani che non potevano neppure desiderare di giocare in Nazionale. Ieri Jason Collins ha fatto esattamente il contrario: si è messo nei panni di quei ragazzini, ha alzato la mano e ha mostrato che per giocare ai massimi livelli basta essere bravi, non c’entra l’orientamento sessuale. Etero od omo che sia.
fonte http://27esimaora.corriere.it di Elena Tebano

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