giovedì 21 gennaio 2010

Hijras, le transessuali indiani


Hijras, le transessuali indiani
Hijras è la parola Urdu che significa ermafrodita. Loro si definiscono nè uomo nè donna e in testi piuttosto antichi vengono considerati come il risultato della parità tra le forze generatrici del padre e della madre.
Nel caleidoscopico mondo indiano ogni sfumatura viene codificata, ma non per questo meno discriminata. In testi posteriori già si sancisce che, chi nasca Hijra, non possa ereditare proprietà, non possa condurre i riti e i sacrifici propri dei figli maschi e che debba essere espulso dalla comunità castale di nascita.
Oggi, a causa della loro condizione, è inoltre precluso loro l'accesso agli studi, al lavoro, al passaporto e persino ad un conto bancario. E' invece recentissima la modifica applicata dalla Commissione elettorale indiana alle liste di iscrizione che permetterà loro di votare.
I transessuali indiani trovarono la loro collocazione sociale rispecchiando alcune divinità androgine e si distinguono dai semplici omosessuali maschi, conosciuti come Zenana, donna, o Anmarad, non uomo, che mantengono la loro identità formale maschile nella società, soprattutto da quando la legislazione coloniale britannica, in via di revisione, sancì nel 1861 la punibilità dell'omosessualità con pene severe. Gli Hijras invece abbandonano la famiglia di nascita, rinunciano alla sessualità maschile, assumono nome, abbigliamento e identità femminili.

Molto raramente, ormai, viene praticata loro una castrazione rituale e totale, che li trasformava, da maschio impotente, in una nuova e potenzialmente poderosa persona. Offrendo alla loro divinità protettrice i loro genitali, confidavano di ricevere una straordinaria virilità nelle loro prossime sette esistenze, ma non sempre questa pratica era volontaria. Sono considerati sacerdotesse della dea Bauchara Mata, qualunque fosse la loro religione di provenienza. Nel Tamil Nadu, a Koovagam, si trova il tempio principale degli Hijras. Qui annualmente si svolge una celebrazione durante la quale gli Hijras di tutto il paese si riuniscono e ritualmente rappresentano il loro matrimonio con Krishna, manifestazione del dio Vishnu. Al giorno seguente ne piangono la morte.

Come Shiva, che secondo la mitologia lanciò sulla terra il suo pene amputato estendendo così il suo potere sessuale all'universo - da cui il culto del Lingam, pene, nei templi a lui dedicati - così anche gli Hijras hanno potere di apportare fertilità agli altri con la loro benedizione. Gruppi di Hijras si presentano, cantando e ballando, alle celebrazioni che si tengono per la nascita di un figlio maschio, augurando al piccolo virilità e, di conseguenza, la capacità di continuare la sua stirpe. Ricevono in cambio doni in denaro ma, spesso, questi sono elargiti proprio perchè si decidano ad allontanarsi, poichè facilmente creano imbarazzo con le loro allusioni scandalose, i gesti osceni e gli scherzi pesanti. La stessa cosa si verifica nella casa di uno sposo che si appresta a raggiungere la sua promessa per contrarre matrimonio. Gli Hijras sono considerati ad un livello sociale inferiore anche ai comuni intoccabili; tuttavia, il timore popolare di ricevere una maledizione in ambito sessuale e procreativo permette generalmente loro di sopravvivere in pace nel contesto sociale.

La comunità degli Hijras funziona come una casta: hanno proprietà comuni, case nelle quali vivono insieme creando nuove parentele fittizie. Si suddividono in sette sottocaste nazionali derivanti da altrettanti avi simbolici, con rappresentanti nazionali e regionali ed un consiglio degli anziani. Esiste inoltre una gerarchia tra discepoli e guru ed è, come di consueto, prevista l'espulsione dalla comunità in caso di disobbedienza alle regole di casta.
La memoria dell'antico ruolo di "sacerdotesse" e prostitute sacre - o di eunuchi di corte in contesto islamico - è oggi sempre più messa in ombra rispetto alla necessità di mendicare e di prostituirsi. Soltanto nelle comunità chiuse, dove viene ricostituita la cellula familiare formata dalla guru-maestra e dalle chela-discepole, o durante la loro grande festa annuale, si possono ritrovare i riflessi di uno splendore che pare ormai definitivamente perduto. La Guru svolge oggi semplicemente funzioni di protettore, alla quale le discepole devono versare i guadagni ottenuti con la prostituzione.
Attualmente molti Hijras sono politicamente attivi riguardo all'emergenza rappresentata dal diffondersi del virus HIV e nella lotta per i diritti degli omosessuali. Nel 2000 un Hijra, Asha Devi, venne eletta sindaco di una città di media grandezza, Gorakhpur, nell' Uttar Pradesh.
Battono le mani in segno di sfida, come gesto di ostilità. Quando chiedono l’elemosina o quando sono respinte, vessate o aggredite. Le palme aperte, gli occhi sgranati e la minaccia di sollevare il Sari e mostrare i genitali. O meglio ciò che dei genitali rimane. Sono le hijras, o il ‘terzo genere’ dell’India. Non si sentono né donne né uomini e occupano un posto preciso nella società: rappresentano i tre quarti della domanda complessiva della prostituzione in India.
Il regista Thomas Wartmann è disceso negli ‘inferi’ di questa realtà, in alcuni degli slam più poveri di Bombay, per raccontare le storie di questi moderni eunichi. In particolare le storie di Asha, Rambha e Laxmi. Molto diverse fra loro, oltre il trucco pesante, il sari coloratissimo e la condivisione di una stessa vita di elemosina e prostituzione. Wartmann è interessato quasi esclusivamente alle loro storie, personali e intime.
Decide quindi di lasciare da parte e mostrare solo indirettamente il ruolo sociale delle hijras, concentrandosi sui loro sogni, desideri, modi di vita. Naturalmente questo non è facile per un occidentale. Forse non sarebbe neanche stato possibile, per lui, realizzare da solo questo film. Ha deciso allora di chiedere aiuto ad Anita Khemka, una giovane fotografa indiana, conosciuta per caso in un aeroporto, anche lei interessata a comprendere e conoscere queste persone, prima ancora che a fotografarle. Anita riesce a entrare in grande sintonia con loro. Riesce a farsi accogliere nelle loro case e nella loro intimità. Ne risulta un ritratto poetico di questa complessa realtà della società indiana. Le hijras sono prevalentemente castrate, anche se non necessariamente. Lasciano le loro famiglie e vivono in comunità organizzate intorno a una rigida gerarchia, ma in un ambiente umano di grande solidarietà reciproca. I gruppi di hijras sono formati da un guru (maestro) e da alcune chelas (discepole). Tra loro si stabiliscono dei veri e propri legami di tipo familiare, si sviluppa una comunità e una solidarietà che permette di affrontare la difficile vita in società. Difficilmente, infatti, le hijras hanno la possibilità di formare una propria famiglia o perfino di trovare un lavoro. Vivono così di elemosina e di prostituzione. Questa una delle domande a cui più sono interessati Anita e Thomas, cioè perché gli uomini, nella prostituzione, cercano più le hijras che le donne. Perché da un lato le cercano e, dall’altro, le considerano esseri spregevoli e immondi. «Quando ero piccola – ricorda Anita – mia nonna mi minacciava, se non stavo buona, di lasciarmi nelle loro mani». Sbagliava inoltre Anita a considerarlo un fenomeno a lei distante, un fenomeno da osservare da lontano. In uno dei bordelli visitati, durante le riprese, la giovane fotografa incontra suo zio, un uomo sposato, ben collocato e integrato nella società… e cliente abituale. La ragione per cui gli uomini le preferiscono è abbastanza semplice, nelle parole delle intervistate. Le donne, normalmente, non sono molto cooperative nel sesso. Non partecipano, non hanno alcuna espressione. Ecco perché il rapporto anale con una hijra è più soddisfacente. Tutto ciò è credibile, in una società dove le donne non devono certo provare piacere nel sesso. Non devono essere ‘soggetti’ del sesso, ruolo riservato solo agli uomini, che altrimenti perderebbero ‘il controllo’ della situazione. La hijra diviene allora una doppia trasgressione, più eccitante e accattivante per il cliente maschio. Un’esperienza più iorderline. Si ritiene, nella società indiana, che le hijras siano dotate di certi poteri speciali e perfino magici, che siano portatrici di buona o di cattiva sorte. Ecco perché un’altra fonte di reddito, per loro, è la partecipazione a feste religiose e a cerimonie. Quando c’è un nuovo nato nel quartiere, ad esempio, si presentano in gruppo fuori della porta per festeggiarlo e le famiglie danno loro in elemosina denaro, cibo (in genere riso e zucchero), sari nuovi. Naturalmente il dono viene negoziato e, inutile dirlo, se il neonato è maschio l’offerta è ben più consistente. Fino a oggi la loro presenza nel cinema è stata marginale. Comparivano, in alcuni film bollywoodiani, come esseri spregevoli e grotteschi, a tratti mostruosi, a rappresentare tutto il rifiuto di questa società per la devianza, a cavallo in questo caso fra natura e cultura, fra omosessualità e transessualità da un lato e scelta di vita dall’altro. Bombay, di Mani Ratman, contestatissimo per la rappresentazione dei moti del dicembre 1992-gennaio 1993 nella grande città indiana, è la prima pellicola a mostrare una hijra in una nuova luce, come una persona tenera e sensibile. Oggi la situazione comincia a cambiare. Le hijras hanno formato importanti movimenti di sensibilizzazione, ad esempio sul problema dell’Aids. Molte di loro sono entrate in politica, occupando posizioni di grande importanza, nelle amministrazioni nazionali e anche in parlamento. Ma Wartmann e Khemka hanno deciso di non approfondire questi aspetti e di restare nella piccola ma non meno ricca sfera personale delle tre hijras intervistate. Nell’ultima parte del film, allora, assistiamo al rito preparatorio per la castrazione di una nuova hijra. Bahuchara Mata, la dea a cui sono devote, veglierà a che tutto si svolga nel migliore dei modi. Le offerte votive sono deposte ai piedi della sua statua, l’incenso profuma l’aria, la lama è pronta. Non c’è da preoccuparsi di problemi igienico-sanitari nelle parole dell’‘anziana’ che effettuerà l’operazione. Non fa neanche molto male, sanguina un po’ e poi smette. Tutto va sempre per il meglio. In una sorta di trance la nuova castrata si appresta alla cerimonia. È già adulta, questo influirà sulla trasformazione del suo corpo. Se l’operazione viene effettuata precocemente, raccontano, la pelle diviene liscia, cresce il seno e i lineamenti diventano di grande bellezza. Questo è più difficile se la castrazione viene fatta in età adulta. Ma per le hijras questo sembra avere un’importanza relativa. Si apprestano a entrare in una nuova vita, dai confini ambigui e dai contorni ambivalenti, fra poteri magici ed emarginazione, fra solidarietà comunitaria e miseria individuale della prostituzione. Tra le linee dei generi l’identità diventa davvero qualcosa di fluido, sfuggente e transitorio. Le hijras sono presenti anche nella cultura islamica. Si narra ad esempio della loro presenza in tutte le corti reali dell’epoca classica. Non si dovrà confondere tuttavia, come ricordano i dizionari enciclopedici, la parola indiana con quella araba, che ha la stessa traslitterazione, la hijra o ‘egira’, il cui significato è la ‘migrazione’. Proprio questo, tuttavia, non sembra estremamente lontano da ciò che le hijras indiane vogliono vivere e intendono essere. La migrazione, per loro, è davvero una dimensione costitutiva della personalità, il fondamento stesso di una nuova identità.

fonte:http://www.jgcinema.com/single.php?sl=eunuchi-india-beetween-the-lines
http://www.guidaindia.com/index.php?option=com_content&view=article&id=865:hijras-i-travestiti-indiani&catid=47:usi&Itemid=60

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